Il perduto amore. Fracchia Umberto

Il perduto amore - Fracchia Umberto


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in camicia, grandi gabbie di canarini, un orto. I cavalli trottavano e io pensavo a Clauss. La mia ilarità a poco a poco si spegneva. Come viveva quell'uomo? Che avrebbe fatto di me, vedendomi?

      Verso sera, la città apparve lontana, in fondo al golfo. I giardini, gli orti erano finiti. Si vedeva il porto; s'incontravano carri carichi di botti; le osterie erano piene; si cantava, si ballava sotto i pergolati di canne, intorno ai tavoli gremiti. Finalmente, prima del crepuscolo, passammo la porta. Mio padre aveva già provveduto al mio alloggio. Discesi dunque dinnanzi alla casa del notaio Sterpoli, che era un vecchietto smilzo, pelato e cerimonioso. Egli mi aspettava sull'uscio, vestito d'una palandrana color tabacco; mi guidò su per una scala semibuia e mi assegnò una camera al secondo piano. Le suppellettili fruste e polverose, i dagherrotipi appesi ai muri, le facce estatiche di due santi sconosciuti, il letto di ferro, tutto mi dispiacque fra quelle quattro pareti. L'unica finestra si apriva sopra un cortile. A mala pena, oltre una interminabile fila di tetti, si scorgeva un filo di mare.

      La malinconia di quell'ora mi è rimasta per molti giorni nell'anima. Anche la cena, servita da una bambina zoppicante, in compagnia del notaio e di suo figlio, Paolo Sterpoli, fu lunga magra e uggiosa. Eravamo in tre, intorno a una tavola da refettorio, immensa, sotto un lume lamentoso. La bambina girava facendo con i suoi piedi disuguali una bizzarra musica sull'impiantito. Dopo cena il notaio, con molte carezze, ( – Ti ho portato sulle mie braccia. Si può dire che ti abbia allattato io – ripeteva ogni tanto), se ne andò a letto e noi rimanemmo ancora a fumare. Quello Sterpoli figlio era un giovanotto di forse ventiquattro anni, di pel rosso, con il naso tozzo e la bocca tonda e un paio di mostaccini arricciati con cura. Egli aveva fumato due sigarette placidamente, leggiucchiando il giornale; ora aveva acceso la terza, ma pareva che la sua calma fosse d'un tratto svanita, perchè s'era alzato in piedi e se n'andava da un capo all'altro della stanza, gettando sguardi inquieti all'orologio, alla finestra e a me che me ne stavo seduto. Finalmente si fermò a due passi dallo specchio e disse:

      – Insomma, perchè fingere? Bisogna che io me ne vada. È tardi. Non siamo amici? Se vuoi venire con me, troveremo certamente Clauss, che ci aspetta…

      – Davvero? – esclamai. – E dove?

      – Dove? E dove vuoi trovarlo? Te lo dirò.

      Mi infilai il soprabito e chetamente uscimmo.

      – Sai che cos'è un caffè concerto? – mi domandò Paolo quando fummo per strada. – Ora andiamo. Oh! non c'è niente di male; non è un luogo di perdizione. Clauss ci va ogni sera. È innamorato. Ti stupisce? Innamorato di una donna (si sa), di una donna che si chiama Daria.

      La sua mano strinse forte il mio braccio.

      – Vuoi credere che tutti sono innamorati di lei? – soggiunse Paolo con voce più sommessa. – Ella canta. Canta e balla. Ebbene: perchè tutti debbono essere innamorati di lei? E chi può spiegare questo mistero? Tu stesso vedrai fra poco…

      – È bella? – domandai esitando.

      – Ah, ah! se è bella? C'è una canzone che dice (mi pare): Je ne sais pas de quel côté, sa clarté me pourra conduire… Au loin une étoile je vois – qui me darde des étincelles… Non importa. Sì, è molto bella.

      – E Clauss?

      Entrammo in una sala piena di luce, di fumo, di rumore, di gente. In fondo c'era un piccolo palcoscenico su cui erano dipinti alcuni pavoni su una pagoda. Gli spettatori, intorno, gridavano e bevevano. Un vecchio vestito di nero diceva:

      – Sì, signori: le gambe di quella donna sono le corna del diavolo!

      Sterpoli mi guardò e disse:

      – Siamo arrivati troppo tardi. Ha già finito di ballare…

      Un'orchestrina cominciò a miagolare una polka, il velario si schiuse e comparvero tra fischi e urli due fakiri indiani. La platea tumultuò. Giovani o vecchi: una strana umanità imberbe o canuta si agitava in quello spazio angusto. Alcune donne, in abiti rossi e gialli, con bizzarri pennacchini e grandi ventagli di piume, se ne andavano intorno precedute da sorrisi incantevoli e da sguardi striscianti come bisce. Incendi. Ed io pensavo per quale miracolo quelle donne potessero avere carni così bianche, e occhi così lustri, e bocche così rosse e attraenti; essere tanto angeliche e tanto peccaminose; e per quale miracolo di continenza gli uomini si accontentassero di guardarle senza strappare violentemente dai loro corpi quei pochi abiti rossi e gialli che ancora le ricoprivano. – Le belle incendiarie! – pensavo io stupefatto. E quelle donne mi sorridevano senza guardarmi, e senza toccarmi mi accarezzavano.

      Salimmo una scaletta a chiocciola ed entrammo in una piccola stanza azzurra. Clauss stava seduto sopra un divano. C'erano altri quattro con lui.

      – Ti conduco un nuovo discepolo! – gridò Sterpoli sbatacchiando la porta dietro le mie spalle e inchinandosi fino a terra.

      Clauss mi guardò.

      – Sei tu? – disse senza muoversi e senza sorridere. – Avanti! C'è posto per tutti.

      Mi avvicinai ed egli mi baciò. Poi ordinò che portassero bottiglie e bicchieri.

      IV

      Noi, dunque, bevemmo, e Sterpoli per brindare urlò: – Questa sera voglio ridere!

      S'era seduto sul tavolo e brandiva il bicchiere come una clava, il bicchiere che era vuoto.

      Carlo Clauss stava fermo. Con voce pacata disse:

      – Tu Sterpoli sei giovane. Hai buon tempo.

      – Ahi! Ah! – sghignazzò Sterpoli. – Io sono giovane? Io sono pazzo. Mio buon maestro, tutte le malattie sono contagiose. Ti sembra strano? Un granello di sabbia basta, un granello di polvere è anche troppo… Ho veduto Daria ballare… Qualcuno ha detto: – Le gambe di quella donna sono le corna del diavolo! Che te ne pare? Il diavolo non è dunque così brutto come si dipinge?

      Io m'ero seduto in un angolo e stavo a guardare Sterpoli che pareva davvero impazzito. Si era arruffati i capelli, e quei suoi riccioli rossi gli davano l'aspetto tragico e buffo di una furia. Clauss levava ogni tanto su lui gli occhi senza sorridere. Sterpoli anche lo guardava di sottecchi quando taceva, e trangugiava bicchieri d'un fiato. Gli altri non gli badavano, come se non ci fosse.

      – Io non capisco – diceva con tono grave uno di quei giovani, rivolto a Clauss – come possano durare pregiudizi di specie così volgare. Tizio è gravemente afflitto perchè non sa che cosa pensare dell'al di là, e cerca di passare qualche ora piacevole con Eunica, che ha le poppe forti. Caio soffre per una delusione amorosa, e invita gli amici a bere un suo vecchio vino d'uva. Eumolpo è stato fischiato a teatro o ha perduto in Borsa, e va a prendere un bagno profumato. Sempronio ha sepolto suo padre, e si regala una eccezionale pietanza di tartufi a cena. Ma, in somma, signori! Per i dolori dell'anima si deve dunque consolare il corpo? E c'è ancora chi crede sul serio che anima e corpo siano due cose distinte!

      – Ahimè! – esclamò un altro. – Che c'importa dell'anima e del corpo? Che siano due o uno? Quando tu baci Clarissa, la baci con l'anima o col corpo? L'importante non è di baciare Clarissa?

      Clauss rise.

      – Infatti, – disse, – è Clarissa che importa.

      Improvvisamente, d'un colpo, la porta si spalancò e tutti ammutolirono. Una donna, avvolta in un ampio mantello scuro che ella teneva stretto alla cintura e al collo con ambo le mani, apparve sulla soglia. Volse intorno gli occhi, dardeggiando sopra gli astanti sguardi obliqui, si avanzò di due passi e si fermò in mezzo alla stanza.

      – Clauss! – disse con voce così profonda e velata che mi dette i brividi. – È la seconda volta che mi insultate in pubblico, tu e il tuo seguito di servitori. Io non posso più sopportare… Io sono stanca… Io ti odio…

      Come se queste parole le avessero tolto ogni forza, ella si appoggiò con una mano all'orlo del tavolo per non cadere. Il mantello, aprendosi, lasciò scoperto il suo collo, su cui brillava un grosso smeraldo. Tutti, intorno a me, sembravano pietrificati. Sterpoli era sceso dal tavolo e guardava dinnanzi a sè, bocca e occhi aperti da ebete. Soltanto Clauss


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