Il perduto amore. Fracchia Umberto

Il perduto amore - Fracchia Umberto


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goduto, nè sofferto; ignorando che cosa valga tutto ciò… Non credi che sarebbe una pazzia degna di te?

      Rise di nuovo guardandomi. Anch'io cercai di sorridere.

      Clauss si volse dove il sole era scomparso. Grandi nitide nuvole scavalcavano le montagne e le prime stelle, due o tre, brillavano nel cielo che s'andava rasserenando. Ma io non avevo occhi per quelle lontane apparizioni. Avevo ascoltato Clauss senza quasi comprenderlo, tanto la sua stravagante eloquenza mi riusciva nuova e mi turbava profondamente. Vivere e morire? Amare? Odiare?

      – È dunque necessario amare o odiare qualcuno? – balbettai ad un tratto senza pensare.

      Stavamo entrambi appoggiati alla ringhiera. Eravamo vicinissimi. Ora, rievocando quella scena, lo rivedo mentre s'accarezzava la barba con un gesto languido delle mani; riodo la sua voce, pacata, come una musica sopra una nota, stanca.

      – Ti racconterò una storia, – disse, – e tu stesso giudicherai. Io avevo, a Karsan, un servo giovane. Era un meticcio, un essere semplice e sano, una creatura riccamente dotata. Lo avevo raccolto fanciullo in una strada. Era cresciuto con me, mi era fedelissimo. Un giorno lo sorpresi in un angolo del cortile mentre si flagellava con un grosso staffile di cuoio, uno staffile da schiavi. – Sarkis! – grido afferrandolo per un braccio. – Sei pazzo? – Egli mi guarda con gli occhi di un cane e, arrossendo, mormora: – Behela… Behela era una fanciulla della fattoria vicina. La conoscevo. Sembrava un bell'animale, con lunghi capelli neri e grandi occhi violacei. Sarkis era stato preso da una così violenta passione per lei, che ogni giorno, dopo averla veduta, dopo averla spiata da lungi e da presso, si flagellava, parendogli di non essere degno di lei, di non poter meritare il suo amore. Un altro servo mi narrò queste cose, più tardi. Alfine essi si sposarono. – Sei felice? – chiesi a Sarkis dopo le sue nozze. – Vorrei esser morto! – rispose. Scese la notte sulla loro capanna di giunchi. All'alba Behela uscì dal letto ancor caldo per andare alla sorgente. Egli la seguì da lontano, la spiò lungo tutto il sentiero. Si nascose poi tra le canne e attese che ritornasse. Behela riapparve, camminando lentamente. Teneva gli occhi chiusi e sorrideva come in sogno. – Behela! – chiamò lo sposo nascosto. Ella si arrestò. – Questa è la tua voce! – disse dolcemente. – La riconosco… – E questo è il mio coltello! – gridò l'altro saltando fuori. L'abbracciò stretta e le piantò la lama nel cuore. Quando mi fu condotto dinnanzi per essere giudicato, perchè io ero il padrone, egli cantava come un forsennato. – Sarkis… – esclamai afferrandolo per i capelli: – sai tu di avere ucciso la tua sposa? Egli ammutolì, mi guardò con occhi che non esprimevano nè stupore, nè vergogna, nè tristezza. – Vorrei esser morto… – mormorò, e ricominciò a cantare.

      Clauss sollevò il capo. Il suo volto si animò: balenò nei suoi occhi quella strana luce.

      – Questa, – disse, – non è una storia straordinaria. Questa è la storia dell'amore, una storia d'amore, cioè una delle innumerevoli storie che si possono raccontare. È necessario amare qualcuno? Era necessario uccidere Behela, sacrificare quel fiore meraviglioso, distruggere quella felicità? Immagina che cosa mi avrebbe risposto quell'uomo se io gli avessi rivolto, una dopo l'altra, tali domande! Noi lo legammo in mezzo alla corte. Ma, di notte, prima di coricarmi, andai, tagliai le corde, e gli ordinai di fuggire.

      – Tu! – esclamai stupefatto. – Tu lo hai liberato?

      – Io, disse, io stesso.

      Mi guardò sorridendo.

      – E non potevo forse uccidere anch'io come lui, – mormorò, – quel giorno o il giorno dopo, con quell'arma o con un'altra simile?

      – Ah! non è così facile! – esclamai, nascondendo il viso fra le mani. – Non è così semplice uccidere! Non tutti uccidono…

      – Infatti, – disse Clauss per consolarmi, – non è per tutti egualmente facile.

      III

      Clauss restò soltanto tre giorni in casa nostra. Durante quei tre giorni io cercai di sfuggirlo, e infatti non accadde più che noi ci trovassimo soli insieme. Il terzo giorno se ne partì improvvisamente, senza aver neppure sfatto le sue valige, per andarsene in città, dove disse che voleva comprare una casa. Confesserò, senza vergogna, che Clauss mi aveva profondamente toccato. Quasi mi faceva paura. Talora, non visto, mentre egli leggeva o parlava con altri, io lo spiavo a lungo, fantasticando. La sua partenza fu per me cagione di gioia: ma non ritrovai per questo la mia antica pace. Ben presto anzi mi accorsi che io non potevo più vivere senza di lui. Di giorno e di notte pensavo alle sue parole; Behela frequentava i miei sogni; e se socchiudevo le palpebre, lo rivedevo, non come era in realtà, ma come era, da giovane, nella vecchia fotografia dell'album, con quei due immobili e smisurati occhi. Quell'immagine era impressa in me fin dall'infanzia. Non mi abbandonò più.

      Vivevo dunque come trasognato. In quella grande casa semideserta dove mia madre diffondeva la malinconia del suo sorriso senza nè inquietudini nè desideri, che mio padre dominava dalla cantina al granaio con la sua allegria d'uomo sano e soddisfatto, io cominciai a sentire il peso della solitudine e il mal sottile della malinconia che prima non conoscevo. Fino a quel tempo, per molti anni, m'ero accontentato della mia casa, del mio giardino, del villaggio e dei campi, nel limite della cerchia alpina. Ora non più. Clauss aveva lasciato cadere in me il suo seme diabolico, e quel seme aveva rapidamente germogliato. Ogni istante scoprivo un desiderio nuovo. E quantunque le mie brame fossero innumerevoli, si potevano tutte riassumere in una sola parola: amare. Avevo lunghe e confuse allucinazioni: visioni di una realtà inverosimile.

      La mia salute fu tanto scossa da questi disordini spirituali, che mio padre, rammaricandosi di aver scoperto troppo tardi che io non gli somigliavo affatto, si decise a mandarmi in città perchè imparassi a mie spese ad apprezzare la famiglia e la casa.

      – Ma non si vive di solo pane – dissi a mio padre; e in poche ore fui pronto per partire.

      Ricordo il penoso distacco da mia madre. Io non le ero stato mai lontano neppure un giorno. Quando mi abbracciò piangendo e sentii il suo esile corpo tremare contro il mio petto, il suo cuore battere, le sue labbra cercare ansiosamente la mia fronte, ebbi come in un lampo il pensiero di rinunciare a tutti i miei pazzi propositi, per rimanere accanto a lei, in quella pace, in quella intimità semplice e solitaria che già allora, dalla soglia, mi pareva superiore ad ogni altra possibile felicità. Ma poco dopo, quando mi volsi per guardare da lontano il campanile roseo tra le piante, ebbi onta di quel momento di debolezza e me ne pentii. La strada costeggiava un fiume e i cavalli trottavano per la discesa. I miei compagni di viaggio erano gente rozza, due contadini e un mercante di porci. Uno dei contadini diceva:

      – No, Obertello: quel giovane finisce male.

      Il mercante, che era tutto lardo dentro e fuori, si dimenava sul sedile brontolando:

      – Non è colpa sua. È colpa di Lisa Lama, di quella maledetta…

      Ascoltavo, e vedevo Lisa Lama col suo muccetto di capelli tinti, seduta contro la porta verde della sua casa, come l'avevo veduta mille volte. Pensavo: – Per un pezzo non la vedrò più. In un paese c'era una fiera. Suonavano le campane. Un razzo matto rigò di giallo il cielo cinerognolo. Due preti neri trotterellavano per un sentiero attraverso le vigne, sopra due mule grige. Una processione di donne e di chierici, con una croce e lanterne e torce, fendeva lentamente e in disordine la folla pigiata contro le porte di una chiesa. Quella chiesa era bianca e pareva che le sue mura si gonfiassero a tratti per la troppa gente che vi si stipava dentro.

      Io mi sentivo straordinariamente ilare; assaporavo con gioia la mia prima libertà. Ho un piacevole ricordo di quelle ore di viaggio. Il fiume andava tranquillamente per la sua strada, e le zucche maturavano secondo la stagione; gli asini onestamente giravano la stanga delle cisterne, la fiera in quel paese si svolgeva nel massimo ordine; la gente era allegra, gli uomini contenti, gli animali soddisfatti, il cielo senza troppo sole e senza troppe nuvole. Il mondo intero era calmo, ilare e soddisfatto: la vita non faceva paura.

      Con la vicinanza del mare, che apparve poco dopo, l'aria divenne più densa e odorosa. Ogni tanto si intravvedeva, in fondo ad un vicolo, fra i muri, un po' di mare chiaro,


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