Il perduto amore. Fracchia Umberto
portano molte maschere.
Ed io pensavo: – Che bestia! Non si accorge che mi burlo di lui. Ma Clauss non badava a me, ed io volevo chiedere a Daria: – Ditemi! Non è vero che, dopo tutto, è molto facile fingere? Temevo che ella scoppiasse a ridere e che Clauss si avvedesse dello scherzo. Daria infatti rideva. Rideva e mi guardava. E anche Clauss mi guardava, sorridendo ambiguamente. Alfine mi toccò una mano e mi disse:
– A proposito di maschere: non potresti andare un minuto in salotto a prendere quella mascherina giapponese che è sul tavolo, con quei baffi e quegli occhi terribili?
Mi alzai e andai a prendere la maschera giapponese. Ma quando fui nel salotto mi pentii d'essermi mosso e ritornai correndo sulla veranda.
– Ecco, – disse Clauss a Daria: – tenete questa maschera di babau per ricordo di quell'altro me stesso che abbiamo seppellito stasera.
Clauss parlava con intenzione. Sì: vidi subito che quel sorriso non era naturale, che non era come tutti gli altri; e quelle parole, in apparenza così semplici, quelle parole mentivano. Mi sembrava che Clauss si fosse avvicinato a Daria durante la mia assenza e che i loro gomiti si toccassero continuamente. Le mie mani erano impacciate nei loro gesti come se gli oggetti, sul tavolo, fossero stati mossi, ed io stentassi, ora, a ritrovarli o a schivarli. – Che cosa c'è che non va? – pensavo perplesso, e cercavo di nascondere il mio turbamento portando spesso il bicchiere alle labbra per bere un sorso.
– No, no! – disse piano Daria ad un tratto. – Ci guarda. Non è possibile!
– Che importa? – sussurrò Clauss, e si accostò ancora più a lei.
Essi erano così vicini che i loro capelli si toccavano. Allora, improvvisamente, una gran luce si fece in me e mi alzai di scatto con un grido soffocato. Sotto l'urto delle mie ginocchia la tavola si rovesciò con fracasso immenso di stoviglie e di vetri. Agitai le braccia, inciampai nella tovaglia e caddi anch'io con tutto il resto. Ma mi sollevai subito, e udii che qualcuno rideva vicino a me, molto vicino a me, quasi al mio orecchio. E poi udii il rumore di un bacio, di due baci, molto chiaro. In un angolo, immobili, stretti l'uno contro l'altra, Clauss e Daria mi guardavano. Quantunque la ombra fosse fitta ed io avessi un velo opaco, un velo caldo e opaco dinnanzi agli occhi, vidi i loro volti gota contro gota, e le loro quattro pupille che mi fissavano sfavillando. E vidi anche come le loro mani si cercassero sotto gli abiti, e la donna avesse i capelli sciolti e la gola più nuda, e un che di candido, di molto bianco sul fianco…
IX
Quella macchia bianca mi rimase negli occhi. Quella macchia bianca, senza nè forma nè sostanza, molto vaga e mobilissima, correva innanzi a me mentre andavo strisciando contro i muri, per vie buie e strette, senza veder nulla se non quella macchia bianca che saltava nell'ombra. Dovunque volgessi lo sguardo, la ritrovavo; sul marciapiede, sulle case, vicina e lontana, sempre egualmente mobile e bianca. Chiudevo gli occhi ed essa si rifugiava tra le pupille e le palpebre; e non potevo in nessun modo liberarmene. A un tratto urtai contro un corpo duro e provai un acuto dolore alla fronte. Toccai, e la mia mano si sporcò di sangue; sentii una goccia calda scendermi dalla fronte sul viso. Col fazzoletto premetti la ferita e continuai a camminare. Mi pareva di udire un suono di banda lontano ma molto distinto, una fanfara marziale, con prevalenza di trombe, di tamburi e di piatti, al cui ritmo cercavo di misurare il mio passo. Non sapevo dove andare. La testa mi doleva, e pensavo: – Questa cravatta, questa maledetta cravatta mi soffoca… Finalmente, dietro un arco, vidi una luce scialba nel buio, una porta illuminata. Dall'osteria non usciva nessuna voce, nessun rumore. Spinsi la porta ed entrai. L'oste stava seduto in fondo, dietro il banco, tra le bottiglie e i caratelli. Mi guardò (era guercio) e non si mosse. Io mi sedetti a un tavolo, battei il pugno due o tre volte, e gridai che mi portasse da bere. Egli si alzò, mi portò il boccale e il gotto, e rimase appoggiato all'altra sponda del tavolo, a guardarmi. Mi sembrava che il suo viso giallo e gonfio fosse liscio come una zucca, e che quell'unico occhio, umidiccio e peloso come un ombelico, gli si aprisse in mezzo alla fronte. Quell'occhio mi stizzì a tal punto che, per non vederlo, gli voltai le spalle. Poi inzuppai nel boccale il fazzoletto e incominciai a inumidire la mia ferita.
– Se mai un po' d'aceto, signore, – disse l'oste. – Il vino non serve…
Aveva la voce di una chitarra, di una chitarra fessa.
– Va bene! – gridai inviperito. – Che te ne importa?
Egli se ne tornò dietro il banco, a rintanarsi fra le botti. Il mio dolore cresceva. Se per poco cercavo di dirigere la mia attenzione sopra una qualunque delle cose che avevo intorno, subito rivedevo quella macchia bianca, bianca e inafferrabile, e il mio tormento cresceva tanto da non poterlo più sopportare.
– Ho la faccia sporca di sangue, – pensavo, – ma che importa? Non è questo che mi tormenta. Anche i Ciclopi avevano sangue rosso (rosso o azzurro?) e un occhio in mezzo alla fronte. Erano come scimmie bianche, gigantesche scimmie pelate, i Ciclopi. Ma che importano ora i Ciclopi?
Improvvisamente un colpo di vento sparpagliò questi pensieri sconnessi, mi ricordai e scoppiai in singhiozzi. Piangevo, e tutto ciò che non volevo ricordare mi ritornò alla memoria, e vidi ogni cosa come era avvenuta. – Daria! Daria! – urlavo in me stesso, e pareva che avessi una voce tonante e assordante, una voce immensa. – Daria! – e non sapevo trovare se non questa parola unica, questa parola fatata, e ripeterla in me stesso fino a stordirmi, fino al punto di non comprenderla più. Non sentivo ormai nessun male alla fronte. Il male era tutto dentro, una piaga dolorante e spasimante al posto del cuore, un coltello che mi colpiva, senza tregua, sempre al cuore. In tanta angoscia a volte pareva che la mia vita intera si arrestasse, e l'anima rimaneva sospesa, come sul punto di abbandonarmi.
Infine l'oste si mosse e mi battè sulla spalla.
– Ora basta, – disse. – Ora si chiude e andiamo via.
– Andiamo via? – balbettai. – Ma dove, dove andiamo?
Egli sogghignò. S'era messo un berrettone nero in capo e una sciarpa intorno al collo.
– Queste disperazioni io le conosco! – disse mentre mi alzavo. – Per pochi soldi qualcuna te le farà passare.
Mi sbattè la porta dietro le spalle ed io ricominciai a camminare a caso. Con un certo sforzo compresi che di fronte a me stava il mare e che quella striscia d'argento, interminabile, era la luna sull'acqua, e che quel rumore fastidioso era appunto il rumore dell'onda. La luna fendeva le nuvole grige di perla. – Bum! bum! scioc scioc! cu cu! bau bau! – e di scoglio in scoglio mille grida confuse, lugubri, beffarde, si propagavano con lunghi echi.
– Mi ucciderò! – dissi. – Perchè non uccidersi? È molto semplice, molto facile…
Il desiderio di morire era così forte che già mi pareva d'esser morto e di vedere ogni cosa da lungi, dall'alto di un monte, di una montagna altissima tra le nuvole. Giunsi fino all'estremo limite della spiaggia; poi mi volsi e rapidamente me ne tornai a casa.
Nella mia stanza c'era qualcuno che russava. Era buia, ma nella penombra scorsi una forma umana sul letto: un uomo vestito che russava. Accesi un lume. Sterpoli stava placidamente disteso e addormentato sul mio letto.
– Sterpoli! – gridai afferrandolo per un braccio.
Egli scosse il capo, sospirò, si volse sopra un fianco, senza aprire gli occhi.
– Sterpoli! – gli urlai in un orecchio. – Svegliati!
Allora egli tentò di rizzarsi su un gomito. Ma ricadde subito e cominciò a mugolare:
– No, non voglio… Per amor di Dio… Bambola… Un po' d'acqua. M'è rimasta una lisca in gola…
– Che lisca! – esclamai. – Sono io!
Sterpoli schiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno stupidamente. Si toccò la fronte e poi rise, d'un riso idiota idiota, da ubriaco.
– Ah! ah! sei tu? – disse. – Sì, sì, mi ricordo. Ma lei dov'è andata? Mi scappa sempre, quel demonio! Non sta ferma un minuto.
Si