Il perduto amore. Fracchia Umberto
tu hai bevuto. Ti si vede il vino rosso, sulla faccia. E che vuol dire? Si beve. Ma perchè si beve? È chiaro. Si beve perchè si ha sete, molta sete, sempre sete. Tu le dici: – Su via, amore, sii buona. Dammi un bacio, un bel bacio… Porgi la bocca e senti che non c'è niente; non trovi mai niente con la bocca. Dici: – Perchè dunque non vuoi darmi nemmeno un bacio? Sii ragionevole, trottola. Tutti abbiamo diritto di vivere. Non è vero? Ora, che c'è di male se certi uomini hanno un cuor tenero, un cuore di burro? E che c'è di male in un bacio? E lei ride e ti risponde: – Va là, allontanati. Non mi voglio sporcare. Allora è quando si cerca la bottiglia e si beve. Sì, fratello mio: questo ci consola…
Io l'ascoltavo. M'ero seduto accanto a lui, sul letto, rassegnato ad ascoltarlo.
– Fratello, fratello mio… – continuò prendendomi una mano e stringendola fra le sue, – io ti volevo domandare qualche cosa di molto importante. Sono venuto proprio per rivolgerti una domanda. Ho detto fra me: – Quel ragazzo m'ha l'aria di uno che può illuminarmi con un consiglio leale. – E ti ho aspettato. Ora ti domando: – Perchè noi ci consoliamo così presto? Un po' di vino basta dunque davvero? Ah! quanto mi addolora! Tu non sai quanto mi affligga questo pensiero sciocco che un po' di ebbrezza basti per consolarci. Vogliamo forse essere consolati dal vino? No! No, noi non chiediamo queste consolazioni. Tu dici: – No, Sterpoli, ciò ci lascia indifferenti. Ed io ti rispondo che è vero, e che noi non vogliamo consolarci. Noi vogliamo godere. Noi vogliamo amare. Noi vogliamo che quando le diciamo, supplichevoli: – Su, amor mio, mia vita, dammi un bacio! – ella risponda con un bacio. E che questo bacio non mentisca; che ella non pensi, mentre tu senti che in realtà un bacio s'è posato sulla tua bocca, un bacio tepido come una colomba, non pensi: – Contentiamo questa bestia, questo animale cornuto. Noi vogliamo essere amati, fratello, teneramente, appassionatamente, come fanciulli, come malati, come moribondi. Godere dell'amore. Che cosa importa tutto il resto? Che cosa può darci il vino? Il nostro cuore è frollo, delicato, sensibile, dolce come lo zucchero. Perchè esse ce lo rendono duro e amaro, duro e malvagio? E anche questo volevo sapere: perchè amiamo? E che cosa si aspetta da queste femminucce color di cera, da questi piccoli serpenti dorati?
Egli parlava e mi guardava teneramente con occhi semispenti, ma pieni di lacrime.
– È vero… – sospirai, – hai ragione. Non sai quello che dici, ma Dio in persona ti suggerisce.
– Quale Dio? – domandò Sterpoli, aggrottando le sopracciglia. – No, non può essere.
Tacque e scosse il capo. Strinse più forte la mia mano e mormorò:
– Ora ti dirò tutto. Non spaventarti. Non mi insultare. Abbi pietà di me. Sento qualcosa qui, nel petto, che gira. Non è il cuore. Sento anche il cuore. È un'altra cosa. Ora, io non posso sopportare… Questo peso, questo enorme peso, non posso reggerlo tutto da solo. Ascolta. Mi aveva detto: – Da questa sera sarò tua. Sarò per te. Non amo che te. Tu non lo sai, ma io ti ho sempre amato, così, in segreto. Lippi! Non ti pare un nome dolce, un nome amorevole? Un nome da innamorato, da amante? Ebbene: da questa sera sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice. Mi ha detto così ed io l'ho aspettata un'ora, due ore, quattro ore. Pensavo: – Verrà. Fra poco, prima che io abbia contato fino a cinquanta, fino a cento, sarà qui. Avevo preparato un piatto di dolci, un mazzo di fiori, una bottiglia di vino leggiero. Non per consolarmi, ma per goderlo con lei, tutti e due insieme. E, a sera inoltrata, quando attendevo e speravo ancora, quella vecchia maledetta è venuta e mi ha detto: – È inutile che tu aspetti. – Come? esclamo. Non viene? – No, dice, non viene. Non verrà. – Ma dove, dove è andata? La vecchia sogghigna e risponde: – Non so. Certo non è andata lontano. – Per la tua vita! grido torcendomi le mani. O mi dici dov'è, o ti uccido! Allora impaurita balbetta: – Da Clauss… È andata da Clauss! – Basta! Io son cieco d'ira e afferro tutto ciò che mi capita fra le mani e tutto riduco in frantumi.
Sterpoli si arrestò ansante.
– Comprendi? – mi domandò.
– Comprendo, – mormorai. – È vero. Erano insieme. Si sono baciati. Li ho veduti con i miei occhi…
– Tu! – esclamò Sterpoli. – Anche tu?
– Anch'io…
X
L'uscio si mosse come se un soffio di vento o una mano leggiera lo sospingesse. Dallo spiraglio spuntarono quattro dita. Poi l'uscio non si mosse più, e quelle quattro dita rimasero così, immobili, nella fessura. Dietro l'uscio qualcuno ora stava spiando nella stanza o attendeva di essere invitato ad entrare. Sterpoli era ricaduto bocconi sul letto, le braccia incrociate sul capo, la faccia schiacciata contro le coltri. Mi alzai lentamente, e, cercando di vincere il tremito dei miei ginocchi, in punta di piedi mi avvicinai all'uscio e feci l'atto di aprirlo. Subito quella mano intrusa scomparve. Ma io trassi bruscamente a me l'imposta e vidi contro il muro, nell'oscurità fonda del corridoio, una ombra confusa di cui non discernevo chiaramente che il bianco degli occhi. Riconobbi subito Soave. Ella fece un passo verso di me. Prima che io avessi il tempo di parlare, mi prese con forza per la mano e mi tirò fuori dell'uscio, che rapida ella stessa richiuse alle mie spalle senza rumore. Quando fummo tutti e due nel buio, non staccò la sua mano dalla mia, anzi la strinse più forte e se la premette sul seno, mentre con tutto il corpo aderì al mio corpo, tanto che sentivo il suo cuore battere contro il mio.
– Pazza, pazza, – dissi con voce soffocata, – che cosa vieni a fare qui a quest'ora? Questa non è casa mia. E come hai potuto entrare?
Dai suoi capelli, con la densità di un fumo di incenso, vaporava contro il mio viso un odore acuto di gelsomino che io penavo a respirare. Il suo cuore batteva sempre più forte. E non parlava.
– Rispondi! – esclamai con forza. – Rispondi e vattene, vattene subito…
Ma per tutta risposta Soave mi trascinò verso il fondo del corridoio e si fermò soltanto sulle scale, dinnanzi alla grande finestra illuminata dalla luna. Allora, guardandomi fissamente con i suoi immensi spiritati occhi, mi bisbigliò:
– Dov'è Daria?
I suoi occhi erano veramente pieni di spavento e di follia. Le sue labbra, il suo mento tremavano, e le sue mani non cessavano un istante di aggrapparsi alle mie, convulsamente, come se avesse voluto spezzarmele. I suoi capelli erano arruffati e le piovevano in tanti radi ciuffi sulla fronte e sulle gote. Il suo povero corpo scompariva nelle pieghe di uno scialle di lana nera.
– Dov'è Daria? – ripetè con l'accento della disperazione. – Dov'è? Dov'è?
Io mi sentivo morire. Nuovamente il mio cervello si riempiva di confuse e plumbee nuvole, e dinnanzi ai miei occhi tutto ricominciava a rotare. Per non cadere chiusi le palpebre. Risposi con un filo di voce:
– Non so… Da Clauss. L'ho lasciata laggiù.
– Ah! – esclamò Soave. – Dunque non mi ero ingannata! Non era lei nella tua stanza!
– No, – dissi, – non era lei. E mi salì alla gola un rantolo di riso.
– E chi era nella tua stanza? – domandò Soave, con tono imperioso.
– Non ti riguarda, – risposi. – Del resto, se vuoi saperlo, era Sterpoli, quello che conosci.
– Lui! lui! – gridò Soave, e fece un moto improvviso come se avesse voluto fuggire. Ma io soffocai le sue grida chiudendole la bocca con una mano, e afferrandole un braccio la costrinsi a rimanere.
– Non gridare, idiota! – le ordinai infuriato. – Vuoi destare tutta la casa?
Soave si lasciò cadere sopra un gradino, e come svenuta si abbandonò contro il muro. Poi riaprì gli occhi, e levandoli umilmente su me, sussurrò:
– Non sai dunque nulla? Kate era appena rientrata in casa, ed io mi stavo spogliando. Era già tardi. Kate piangeva e non riuscivo a farla parlare. – Ma parla, dunque, per l'amore di Dio! supplicavo. Che cosa è accaduto? E lei singhiozzava e non riusciva a spiccicare una nota. Improvvisamente si ode