Racconti e novelle. Ghislanzoni Antonio

Racconti e novelle - Ghislanzoni Antonio


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che è comune, io riserbo la primizia di una novella, che ebbi la fortuna di raccogliere io stesso ad un banchetto di amici, venuti sul luogo per cercarvi l'oblio di non so quali noie della loro esistenza domestica.

      Tre amici dell'epoca più avventurosa – un poeta. un ingegnere ed un medico – amici già quasi dimenticati, sebbene a Milano, dal 1846 al 1854, avessero diviso le vivaci peripezie della mia matta giovinezza.

      Da quindici anni non ci eravamo più veduti – e quando il caso mi condusse presso il tavolino, ov'essi stavano pranzando, avvenne una di quelle esplosioni di meraviglia e di gioia che d'un tratto sembrano ringiovanirci.

      Quella esplosione cominciò naturalmente con una scarica di nomi e cognomi.

      – Antonio!.. Eugenio!.. Lamberti!.. Rambaldi!..

      E tutti, per alcun tempo, ristemmo sulla punta dei piedi, e le nostre braccia si incrociarono in una stretta amichevole al di sopra di un cappone fumante, il quale pareva attonito di vedersi così presto negletto, dopo l'accoglimento festoso che gli amici gli avevano fatto al suo primo apparire.

      Per ammorzare questi subitanei entusiasmi dell'amicizia non ci vuole gran che. Basta talvolta una parola, un monosillabo inaspettato, qualche cosa che riveli un tratto ignorato e poco piacevole delle rispettive biografie.

      Il primo a lasciarsi sfuggire una di queste esclamazioni deprimenti fu l'amico Lamberti.

      Quand'egli, con un accento che nessuna musica potrebbe tradurre, ebbe profferita questa parola così semplice e complicata ad un tempo: «ammogliato!» tutti i volti parvero allungarsi, tutte le mani intrecciate dall'entusiasmo si allentarono. Ciascuno ricadde Sulla propria seggiola, e gli sguardi si ritorsero mestamente al cappone obliato.

      In quella comitiva, che altre volte aveva rappresentato a Milano la schiuma degli scapigliati, non v'era alcuno che potesse vantarsi di aver resistito al contagio. Tutti eravamo ammogliati.

      Io sedetti alla piccola mensa; e poichè le vivande e un eccellente vino di Valtellina ci ebbero alquanto rianimati, l'amico Lamberti si levò in piedi nuovamente, e, alzando il bicchiere al di sopra delle teste, si fece a gridare: Evviva le nostre mogli! evviva il matrimonio! – Fu un lampo. Subito dopo, il povero Lamberti ripiombava sulla seggiola come affranto da uno sforzo sovrumano.

** *

      Era omai tempo di abbordare francamente la quistione. Ciascuno sentiva il bisogno di spiegarsi, o piuttosto di giustificarsi dinanzi a quel piccolo tribunale di amici.

** *

      Per comprendere il nostro imbarazzo, è d'uopo sapere che, tanto io come quei tre amici della sventata giovinezza, avevamo professato, in altri tempi, delle teorie così avverse al matrimonio, da ritenerlo un delitto contro natura. A quell'epoca, un marito rappresentava per noi l'animale più ridicolo della creazione. L'amico Eugenio, il poeta, aveva scritto in odio del matrimonio una dozzina di satire e un volume di epigrammi. Molte volte, nei nostri spensierati ritrovi, era stato proclamato che il primo di noi il quale avesse ceduto al volgare appetito di ammogliarsi, verrebbe ritenuto un apostata, e come tale, messo al bando dalla società. Avverandosi l'incredibile fatto, gli amici si riterrebbero sciolti da ogni riguardo verso il povero delinquente. Ciascuno si sarebbe adoperato ad infliggergli quel castigo, che suol essere, quando le mogli si prestino all'uopo, la punizione ordinaria di tali delitti.

** *

      Meno male che il delitto era stato commesso da tutti. Noi ci trovavamo nell'identica situazione di quelle brave pétroleuses della Galilea a cui Cristo avrebbe permesso di lanciare la prima pietra. Riconoscendoci tutti colpevoli, era dunque naturale che, superata quella prima fase di turbamento e di vergogna, alla fine, noi prendessimo il partito di ridere.

** *

      Eugenio fu il primo a dare l'esempio: «Degeneri colleghi della mia giovinezza, riprese l'amico coll'enfasi de' suoi begli anni; a che serve guardarci l'un l'altro con questa ebete espressione di stupore e di vergogna? Anni sono, noi eravamo sommersi nelle utopie. Noi ci illudevamo di essere più forti e più scaltri che la comune degli uomini. Oggi dobbiamo confessare che tutti gli individui della specie umana sono uguali in faccia… alla donna. Perchè le nostre utopie avessero a realizzarsi, conveniva seguire un altro cammino. Il nostro massimo torto fu quello di illuderci che avremmo potuto sottrarci alla moglie, seguendo, come sempre abbiamo fatto, le orme della donna. Ora, chi segue la donna, o tosto o tardi deve inevitabilmente cadere nella moglie. – Evidentemente, fra le nostre teorie anticoniugali e le nostre aspirazioni di istinto, c'era una contraddizione ed una lotta. Noi ci eravamo collocati in una situazione assurda, dalla quale non era possibile uscire, se non a patto di rinunziare alle più dolci emozioni della vita. Rileviamo le nostre fronti avvilite! Guardiamoci in faccia l'un l'altro colla franchezza dell'uomo intemerato. Nessuno di noi ha da vergognarsi di aver tradito un principio. Noi abbiamo costantemente protestato e reagito. La nostra sconfitta non provenne da debolezza e da viltà, ma soltanto da un errore strategico. Che ve ne pare? non ho ragione?..

      – Se ci fossimo attenuti, riprese cupamente il Rambaldi, alla savia massima di non fare la corte che alle donne maritate, a me sembra che, senza rinunziare alle più dolci emozioni della vita, non ci troveremmo oggi tutti quanti al duro passo di dover giustificare le nostre transazioni… Grazie alle provvide leggi dei nostri padri, una donna non può avere due mariti – chi dunque ama le donne degli altri, segue la strada più sicura e più comoda per iscansare il precipizio.

      – E se io vi dicessi, interruppe Eugenio vivamente, se io vi dicessi che fu appunto questa falsa massima che mi ha trascinato alla perdizione, e che io non sarei forse mai precipitato negli abissi del matrimonio, se non avessi ceduto al peccaminoso desiderio di assaggiare la donna d'un altro!

      – In verità, la dev'essere una istoria curiosa e bizzarra, dissi all'amico.

      Nè più nè meno della vostra; e se tutti ci facessimo a riannodare le fila di questa trama capricciosa dove nostro malgrado ci troviamo impigliati, ne uscirebbero indubbiamente delle assai bizzarre novelle.

      – Vogliamo provarci?..

      – Agli ordini vostri, rispose Eugenio – e purchè tutti promettiate l'uguale sincerità, io sarò il primo a darvi l'esempio.

      – Sta bene.

      E l'amico Eugenio si fece senz'altro a raccontarci la sua istoria.

** *

      « – Or fanno quindici anni, allorquando il mio cattivo genio mi diè la prima spinta su questa maledetta carriera delle lettere, dove non ho raccolto che malanni, io versava nelle più gravi strettezze. I primi prodotti del mio genio mi venivano pagati a cinque lire per ogni foglio di stampa – i miei guadagni non sorpassavano le ottanta lire al mese.

      Io abitava una stanzetta più vicina al cielo che alla terra.

      Un bel mattino, sento bussare alla porta. Nessun altro fuorchè un creditore avrebbe osato salire a tanta altezza. – Avanti! – A quell'epoca i creditori non mi facevano paura; mi rendeva forte, al loro cospetto, la certezza di non avere con che pagarli.

      Sventuratamente, quella mattina non si trattava d'un creditore. Era il primo anello della grande catena conjugale che veniva ad introdursi nel mio libero domicilio, sotto le sembianze di un idiota.

      Appena io mi ricordava d'aver veduto una o due volte quel fatale personaggio. Bel giovine, del resto, tutto profumato e azzimato – uno di quei figuri a cui il mal di fegato o qualche altro vizio degli intestini suol dipingere il volto di quel pallore, che alcune donne sogliono chiamare la vernice del sentimento. La sua bruna capigliatura stillante di cosmetici, l'occhio grande ed incavato, il languore del collo, il cascante abbandono della persona, davano a lui una cert'aria di genio sventurato che, a vederlo da lunge, lo rendeva interessante. Vi ho già detto alla prima presentazione che egli era un idiota, ed ora credo bene ripetervelo, perchè non vi facciate sul di lui conto alcuna illusione.

      – A che debbo il piacere… l'onore.

      Il mio visitatore stralunò gli occhi, e sorrise, stendendomi la mano in atto di cordiale benevolenza.

      Poi, innanzi di profferire parola, si tolse dalle tasche un portafogli, ne levò fuori un pajo di lettere profumate, e, dopo averle guardate senza aprirle con


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