E Non Vissero Felici E Contenti. Federica Cabras

E Non Vissero Felici E Contenti - Federica  Cabras


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una sola volta, e dopo sono stata più sterile di una sala operatoria. Non sono stata capace di dargli un altro figlio! Come pensi che mi senta? A cosa serve una donna il cui ventre si è esaurito? Lui voleva un altro figlio, un’altra ragione per vivere, per tirare avanti…»

      «Oh, tesoro. Io pensavo non ci aveste nemmeno provato, dopo la morte di Ginny.»

      «Oh, sì! Per mesi! Anche se non ci guardavamo nemmeno più. Lo facevamo lo stesso, e puntualmente ogni mese le nostre speranze venivano smentite. E lui ha voluto smettere di provarci. “Mi fai schifo!” mi disse, un giorno. “Smettiamola di farci del male, basta.” aggiunse. E io rimasi così. Ero così dannatamente triste, afflitta. Non capivo quale fosse il problema. Poi mi sono arresa. E lui è cambiato; era dispiaciuto, dolce. Mi chiedeva, amabilmente, ogni mattina che colazione volessi o se avessi bisogno di qualcosa. Il suo sguardo tradiva compassione, pietà. Come se qualcuno potesse, sul serio, avere compassione per me! Porco!»

      «Lo respingesti?»

      «Ovvio, lo feci.» affermò con gli occhi stretti in due fessure e un’espressione soddisfatta sul viso. «Lo feci iniziando a odiarlo. Provai io compassione per lui. Perché la sua vista non mi provocava niente: né amore né dolore; né tristezza né gioia. Era un fantasma, per me.»

      «Mi dispiace. Non sapevo.»

      «No, lo so.»

      Si sedette nuovamente. Lo scatto d’ira era passato. Ora rimaneva solo il vuoto di un’esplosiva esacerbazione fine a se stessa.

      «Porca vacca, mi sento così male…» mormorò, più a sé che agli altri.

      «Lo so, cavolo se lo so.»

      «Ora dormirò.»

      «Va bene, perfetto. Io starò nella stanza accanto. Proverò a riposare. Domattina ti sveglio alle 5 e trenta, così potrai correre a casa tua, cambiarti ed essere a lavoro alle 9.»

      «Ok.» biascicò, poco convinta, l’amica.

      *

      Nella sua stanza poco distante dal salotto Olivia pensò a tutta quella faccenda. Forse Sandi era nata buona – del resto si intravedeva nei suoi occhi, di tanto in tanto e soprattutto nei giorni di profonda stanchezza, un lampo di gentilezza, una parvenza di empatia – per diventare poi quella donna senza cuore nel tempo, a causa delle delusioni e di complicate e caotiche odissee. Si girò nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Pensò alla vita che aveva in grembo, a quel bambino che cresceva dentro di sé. Pensò al miracolo di avere dei bambini – con i loro giochi, i loro gridolini, la loro voglia di fare e i loro visini buffi sporchi di gelato. Poi pensò all’amarezza di Sandi – quella stessa amarezza che le aveva letto nel volto quando, pazza dalla furia, raccontava il calvario che l’aveva portata ad odiare il marito.

      «Sì, nemmeno io l’avrei perdonato. D’altro canto l’ha ferita in un modo profondo e irrimediabile.»

      Si ricordò la Sandi che conobbe tanti anni prima. Aveva 22 anni ed era fresca di studi. Era arguta, intelligente. Una laurea in Storia Antica e tanta voglia di sfondare. Aveva motivazione da vendere. Era una prima donna, Sandi; l’aveva persino invidiata e odiata per i suoi successi, per un lasso di tempo abbastanza lungo da garantirle l’inferno. Bella da morire e sagace all’inverosimile, riusciva, con le sue chiacchiere dense di sottili allusioni, ad ammaliare tutti. Poi era arrivato Edmund. L’aveva catturata con l’ironia e il brio. Lei, con lui, era riuscita a raggiungere un po’ di leggerezza e aveva perso, solo parzialmente, quell’espressione di superbia che le si dipingeva sovente in volto; lui aveva capito che nella vita si deve essere svegli e svelti. Era stato uno scambio equo, insomma. Avevano imparato l’uno dall’altra. Il mondo era ai loro piedi; poi era arrivata la bambina, e la sua prematura dipartita li aveva divisi e buttati nel baratro di una vita scarsamente appassionata e scandita solo dal rancore che, di tanto in tanto, tornava a farsi vivo. Lei allora si era fatta assumere in una grossa azienda, e fine dei giochi. Che sapesse, non aveva nemmeno più provato a scrivere – ma su questo non avrebbe di certo messo la mano nel fuoco.

      «Certo,» mormorò malignamente nel buio «che se avesse saputo che lavoro avrebbe fatto da grande non avrebbe certo avuto quel nasino insù per tutto quel tempo!»

      Poi, accortasi di quella sua infelice uscita, disse un’Ave Maria.

      «Perdonami, oh Signore. Perché non solo ho peccato, ma peccherò ancora, lo so!»

       Fu in quel momento che, presa dalla stanchezza, chiuse gli occhi e cadde in un sonno ristoratore privo di sogni.

      7

      Eddie si alzò. Non si era spaventato dall’assenza di Sandi. Aveva trovato un biglietto sul banco della cucina, la notte prima.

      “Edmund, io vado da Olivia. Non so quando rientrerò. Magari mi fermo stanotte. Ciao.”

      Il suo sguardo si era posato su quel freddo “Edmund”. Nessuno lo chiamava Edmund. Allora, scosso da un fremito, si abbandonò ai ricordi.

      «Che diavolo vuoi da me, Eddie?»

      «Cosa stai dicendo, Sandi? Voglio solo parlarti! Sei mia moglie, diamine!»

      Era stato poco dopo che lui aveva iniziato a provare pena per lei: le aveva reso la vita un inferno, con questa storia di non riuscire ad avere altri figli. Voleva farsi perdonare. Ma, come al solito, si era innervosito, e l’avevano terminata a litigare.

      «Non voglio che tu mi tocchi, nemmeno con un dito! Non ti facevo schifo?»

      «Non essere sciocca. Ero arrabbiato, e amareggiato. Ma lo sai, ti amo. Ti desidero. Sono folle per te!»

      «Muori! Sai una cosa? Eddie per me non esiste più. Per me, d’ora in avanti, sarai solo Edmund. Solo tuo padre ti chiamava Edmund, giusto? Quel tuo padre che ti ha rinnegato come fossi figlio del Diavolo in persona!»

      «Che intendi dire?» rispose lui, mentre il sangue gli si gelava nelle vene. Provò ad avvicinarsi per abbracciarla, ma lei si scostò. Allora, in presa a un raptus, la tenne forte e la baciò. Voleva stringerla, sbatterla nel divano e scoparsela. Era questo che meritava per avergli detto quelle orribili parole. Ma la lasciò andare, consapevole che quella situazione l’aveva favorita lui stesso.

      Le si girò, lo guardò con astio e si sistemò la spallina che lui aveva fatto scendere. Poi gli sputò in pieno viso.

      «Edmund, puoi anche crepare per quel che mi riguarda.»

      «Non sarà questa la tua fortuna.» chiosò lui. «Bisogna che tu mi uccida, sporca stronzetta.»

      «Oh, non mi tentare. Non mi tentare.»

      Era quasi pronto. Indossò le scarpe, la cravatta e si mise a tracolla la borsa del PC e dei documenti.

      Quando arrivò in ufficio avvampò al ricordo della sera precedente. Scosse la testa, come per voler allontanare da sé quella verità tanto scomoda quanto pericolosa. Non avrebbe più dato peso alle parole di Giorgia. Non avrebbe riso alle sue battute e non avrebbe vantato una sua qualunque illuminante asserzione. Non le si sarebbe seduto accanto, durante il pranzo. L’avrebbe evitata, insomma, come si fa con peste e malaria. Del resto non voleva alimentare in lei quella stessa illusione che si era creata da sola – l’illusione che lui avrebbe potuto essere salvato: nessuno ne sarebbe stato capace, tantomeno lei.

      Ma quando arrivò nei pressi del suo ufficio la vide chinata sulla sua scrivania. Per terra una scatola di cartone aperta conteneva pochi averi e altri ne doveva ancora accogliere.

      «Giorgia?»

      Lei si voltò. Era bella quanto la sera precedente, o forse anche di più – il fatto che lui non potesse liberarsi dei fantasmi del passato per averla la rendeva, ai suoi occhi, ancor più appetibile. Lo sguardo triste da cane abbandonato e la postura non eretta e forte ma china, debole furono come una pugnalata nel cuore, per Eddie.

      «Perché metti le tue cose in una scatola?»

      «Me ne vado, Eddie. E no, non pensare


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