E Non Vissero Felici E Contenti. Federica Cabras

E Non Vissero Felici E Contenti - Federica  Cabras


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una punta di amarezza. «Proprio ora!»

      «Perché proprio ora, mammina?» domandò Linda.

      «Niente tesorina, niente.»

      Nessuno di loro sapeva del fratellino/sorellina che cresceva nel grembo della mamma; si sarebbero senza ombra di dubbio straniti: quella mamma forte e buona non faceva altro che dire che quattro figli erano molti. Sì, lo diceva mentre sorrideva, ma loro la vedevano la stanchezza nei suoi occhi, la voglia di dormire – anche solo cinque minuti – e il desiderio di fare un bagno caldo e lento.

      «Frozen, mamma?» azzardò Dana. D’altronde ne avevano visti un paio, quella settimana.

      «Ecco, quello. Raccontatele come è stato!»

      «Bello.» chiuse, velocemente, Matthias.

      «Come sei originale, figlio mio.» lo rintuzzò la madre, con sguardo severo. «Proprio un bel racconto.»

      «Vogliamo andare di là, mamma, a giocare.»

      «Anche io!» si unirono gli altri tre.

      «Andate, andate a giocare, figli miei.»

      «Ciao bimbi…»

      «Ciao zia Sandi…»

      Quando la porta della camera dei bimbi si chiuse Olivia si girò a guardare Sandi e le domandò, con voce roca: «Ma secondo te come stanno? Sono scioccati?»

      «No, scioccati non direi, Olivia. Secondo me semplicemente si riprenderanno, ma hanno bisogno di tempo.»

      «Tempo, e chi ne ha? Dammi un sorso di liquore…»

      «Non puoi, Olivia.»

      «Solo un sorso, che Dio mi perdoni. Mi serve. Mi aiuterà a dormire stanotte.»

      E sorseggiò, calma, cercando di distogliere la propria mente dai pensieri. Forse era vero: serviva tempo… sia ai suoi figli che a lei. Ma serviva soprattutto che Dario non si avvicinasse a quella casa mai più. Lei non lo avrebbe permesso. Poi sorrise, pensando all’enorme mucchio di vestiti carbonizzati nel giardino. Il sorriso divenne riso.

      «Che hai da ridere?» le domandò Sandi, divertita.

      «Quello stronzo non ha nemmeno un vestito con sé! È uscito con una tuta e un giubbotto… probabilmente tornerà a prendersi la roba!» urlò, ridendo sguaiatamente. «E sai cosa troverà?»

      «Un mucchietto di cenere?» azzardò lei.

      «Esatto. Un cazzo di fottutissimo mucchietto di cenere!»

      5

      Eddie aveva pranzato da solo. Una scatoletta di tonno, una mozzarella e un paio di pomodori. Leggero e sano, non per scelta ma per incapacità dinanzi ai fornelli. Poi collassò qualche ora nel divano, accoccolato a Ted. Quel cane era tanto, troppo pigro. Ogni momento era buono per schiacciare un pisolino.

      La sveglia del telefono, puntata per le 5 e trenta, suonò una canzone conosciuta. Lui aprì gli occhi, riposato. Poi si alzò e corse in doccia. Per le 7 meno un quarto doveva essere in ufficio, con la cena cinese ritirata già tra le mani. Si insaponò, velocemente, poi si risciacquò e uscì alla ricerca di un asciugamano. Si preparò come si trattasse di un’uscita, e poi si sentì in colpa per questo. Aveva messo un paio di pantaloni beige, una polo scura e una giacca sportiva marrone scuro. Si era fatto il gel, alzando i capelli chiari, e aveva messo il suo profumo migliore. In perfetto orario sedette nell’auto, diretto al take away cinese. Poi, procurato il cibo, si diresse all’ufficio. L’atrio era buio, probabilmente Giorgia non era ancora arrivata. Entrò con sicurezza in quei luoghi tanto conosciuti, poi avanzò verso la porta nella quale erano affissi tre nomi. Uno di questi era il suo. Si sbagliava. Giorgia era già lì: davanti a lei, mille pratiche e due bottiglie di birra.

      «Ehi, scusa ti ho preceduto.» esordì, timidamente, lei.

      «Oh, no. Ma figurati. Hai fatto bene.» rispose lui poco convinto. Quella storia che fossero entrambi lì, soli e ben vestiti gli sembrava sempre più sbagliata. La guardò. I capelli scuri e lunghi fino al limitare della schiena le davano una parvenza infantile, che veniva smorzata subito dalle linee sinuose del suo corpo. Notò, non con stupore, che anche lei si era acconciata in modo più preciso e sensuale del solito. Un vestito verde scuro con lo scollo pronunciato le fasciava il seno e le cingeva i fianchi; le scarpe scintillavano, e al collo portava un gioiello brillante capace di attirare l’attenzione. Quando i loro occhi si incontrarono – scuro e chiaro, uniti da un momento infinito, magico, inafferrabile – un brivido corse nella schiena di entrambi. Ma lui sapeva già che sarebbe successo, e si era preparato.

      Si sedette dall’altra parte della scrivania e pose davanti a sé i fogli di cui disponeva, invitandola con un gesto della mano a fare lo stesso.

      Lei, delusa e un po’ afflitta, obbedì a quel suo ordine.

      «Allora, qual è il problema lo sappiamo. Dobbiamo solo stilare una lista di cose da sistemare. Grafici, statistiche. All’arrivo del cliente tutto dovrà essere in ordine.» esordì Eddie con voce ferma e pacata – dentro di sé il fuoco ardeva, ma riuscì a mantenersi composto.

      «Io penso che dovremmo iniziare con questa scheda. La compiliamo?» lo interrogò, insicura, lei.

      «Sì, facciamo questo.»

      Lavorarono di gran lena per tre quarti d’ora. Poi un brontolio interruppe i loro conti minuziosi. Allora si sedettero a terra e aprirono le varie scatolette di carta contenenti cibo.

      «Cosa sarà, questo?»

      «Ah non chiedermelo! Mangia e basta. Se non sai non puoi preoccuparti.»

      «Questa è la tua filosofia?» rise lei, divertita.

      «Certo, lo è.» stette al gioco.

      «Perché sei così triste, sempre?»

      «Cosa intendi, Giorgia?»

      Non credeva di essere sempre triste. Sì, talvolta era capace di perdersi nei suoi pensieri, soprattutto quando la sua mente decideva di vagare qua e là tra presente e passato. Dopo pochi minuti di vuoto, di nebbia, di ricordi, tuttavia, lui si riprendeva. Era simpatico, un burlone.

      «Non fraintendermi. Tu giochi sempre, e con tutti. Sorridi sempre. Ma io lo vedo. Anche quando ridi di gusto il tuo sguardo è comunque cupo, come se ogni volta che fossi felice qualcosa ti ricordasse che non puoi esserlo, non a lungo almeno.»

      Aveva ragione: nessuno se ne era mai accorto, ma le sue erano risate vuote, ingombre di macigni troppo pesanti da spostare. Il suo era solo divertimento apparente.

      «Sì, hai visto giusto, Giorgia.»

      Era inutile mentire, lei aveva guardato dentro i suoi occhi e aveva messo a nudo tutta la sofferenza.

      «Se fossi mio non permetterei che tu soffra così tanto…» bisbigliò lei. Nel calmo ambiente vuoto le sue parole rimbombarono come fossero urlate.

      «Ma non sono tuo.»

      «E allora di chi sei? Di quella moglie che non ti ama e che non ami? Credi che non mi sia accorta che non porti la fede? Un giorno ti ho sentito parlare con Stefano. Eravate nell’ala relax, e io ero fuori. Sono stata ad ascoltare. Da quanto non ti tocca, Eddie? Da quanto non ti dice che ti ama, che vive di te, che sei l’unico uomo che amerà mai? Da quando non ti prepara il pranzo? Non ti ama. Tu sei perfetto e lei non capisce la fortuna che ha. Non capisce che sei un uomo d’oro. Quell’ingrata non sa che si perde. E io… io ti vorrei. Così tanto e in modo così totale. Tu non capisci! Sai cosa? Tu sei uno stronzo e lei è una stupida!» disse con rabbia.

      Lui era livido di rabbia.

      Le si avvicinò.

      «Che cosa hai detto?» sussurrò, a mezzo centimetro dal suo viso.

      «Tu sei uno stronzo e lei una stupida! Hai bisogno che ti vengano sturate le orecchie, o cosa?» lo sbeffeggiò lei.

      Lui le tirò uno schiaffo.


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