Sotto La Luna Del Satiro. Rebekah Lewis
completamente alla maledizione. La sua umanità diventata spesso un pesante fardello.
Ariston si inginocchiò nel punto in cui una volta c’era stato il focolare. Le rocce frantumate erano sparpagliate, ricoperte di sporcizia e, in alcuni punti, di vegetazione, che ne evidenziava il grado di disuso. La pioggia bagnava le pietre, purificandole dalla loro storia e ricordandogli allo stesso tempo che il suo passato, finché fosse rimasto in vita, non si sarebbe mai potuto cancellare. Come le rocce ai suoi piedi, la sua memoria accumulava sporcizia, mentre pezzi della sua anima si sgretolavano, lasciandolo deforme e non più integro. Dal momento che la morte non era un’alternativa, l’unico modo per adattarsi era andare avanti e non guardarsi mai alle spalle.
La maledizione gli aveva portato via tutto in un attimo. La sua vita, la sua felicità, il suo senso di appartenenza. Andati. Tutti. Non che avesse mai dato tanta importanza a quelle cose quando ancora le possedeva. Avrebbe potuto essere qualcuno. Un marito. Un padre…
Invece, Ariston era svanito negli abissi del tempo, affondando ogni giorno più in profondità. Uno spauracchio usato per tenere i giovani maschi lontani dai vizi e le femmine dall’avventurarsi da sole nella foresta dell’Arcadia, dove aveva vissuto, per timore di cadere preda di un mostro leggendario. Ariston era stato temuto, ridicolizzato e, in rare occasioni, desiderato.
E ora?
Era un mito nelle menti dei mortali – un mostro il cui nome era privo di infamia e nessuno ricordava; non come Pan, che era un dio. O Adone, suo fratello, celebrato da umano per la sua bellezza virile e stimato per questo come un raro “dio mortale”. Adone aveva raggiunto la notorietà attraverso le storie di Afrodite, la bella dea che aveva pianto la morte del suo amante mortale. Quelle stesse storie che si beffavano della verità, visto che Adone non era davvero morto, ma caduto vittima della stessa maledizione di Ariston. Nessuno avrebbe ascoltato dei racconti sul gemello di Adone, perché, alla fin fine, era insignificante.
Ariston e Adone erano stati abbastanza sfortunati da essere presenti, quando Pan e Dioniso avevano creato accidentalmente quelle creature conosciute come satiri. La maledizione aveva colpito ogni maschio umano che avesse assistito allo scontro tra le due divinità. Dai loro crani erano spuntate delle corna e i loro piedi si erano trasformati in zoccoli fessi, lasciandoli tutti inorriditi e alterandogli la struttura complessiva delle gambe dal ginocchio in giù. Secondo la leggenda, i satiri, conosciuti anche come fauni, erano per metà uomini e per metà capre. Ma erano stati pienamente umani un tempo, malgrado il loro aspetto mutato. La paura, tuttavia, non si soffermava sui dettagli. Certo, il fatto che Pan fosse diventato celebre per saltar fuori dai cespugli e inseguire degli sventurati mortali attraverso i boschi nei momenti di irrequietudine – un’inclinazione fortunatamente non condivisa dai satiri dell’Arcadia e da pochissimi della Beozia – non aiutava.
Per qualche ragione, ai satiri che si erano trovati alle spalle di Dioniso al momento della maledizione erano cresciute lunghe corna rivolte verso l’alto. Dioniso, però, non pareva aver subito cambiamenti fisici. A Pan e a quelli che si erano trovati dietro di lui, invece, erano spuntate corna da ariete, che si arricciavano ai lati delle loro teste, con le estremità appuntite rivolte in avanti. Questi avevano seguito Pan in Arcadia; gli altri erano rimasti con Dioniso sul monte Citerone, in Beozia.
Sebbene né gli arcadici né i beoti avessero recato danno agli altri, essi rimanevano divisi da mutua sfiducia e disprezzo. Ad accrescere la distanza fra loro, il Fato aveva lasciato che Adone divenisse un satiro della Beozia. Ariston, benché grato di essere un arcadico, si era spesso pentito di non aver combattuto per portare il fratello con sé, prima di andarsene insieme a Pan. Non lo aveva più visto dopo quella notte.
Ariston scosse la testa per scacciare ogni pensiero sugli dèi e su Adone. Le rocce fecero rumore, colpendosi l’un l’altra, mentre rovistava nel mucchio. Trovandone una ancora più o meno integra, la sollevò e la strizzò. Non si sgretolò, sapeva di non essere abbastanza forte da frantumarla, nonostante lo stato di semi distruzione in cui versava la sua vecchia casa. Cos’era successo? Erano passati milleseicento novant’anni da quando era stato lì l’ultima volta e non aveva idea di cosa fosse accaduto durante la sua assenza. L’odore pungente di terra umida e muschio gli solleticò le narici e Ariston sospirò.
Il profumo di casa. Il profumo della perdita. La distruzione che ho causato alla mia famiglia.
Qualunque cosa fosse successa, la colpa era sua. Avrebbe dovuto ereditare quella terra e tramandarla ai propri figli.
Non saresti mai stato in grado di provvedere a una famiglia, non sei riuscito nemmeno a proteggere tuo fratello dagli dèi.
Non si sarebbe dovuto incolpare. La guerra aveva devastato quella zona per anni. Ateniesi, tebani, spartani, persiani… non c’era stato un solo momento in cui una battaglia non avesse avuto luogo sul suolo beotico. Ariston si chiese se Adone fosse mai tornato, o se avesse lasciato la Grecia da tempo. E se era tornato, era rimasto in quello stesso punto, bramando quel tempo in cui erano stati umani e non coinvolti nelle vite degli dèi?
Ariston fece scivolare la pietra nella borsa di pelle che portava al fianco. L’avrebbe tenuta come ricordo per il suo viaggio, perché sospettava che non sarebbe più tornato in quel luogo. Cosa avrebbero pensato di lui i suoi genitori se si fosse presentato alla porta come un satiro? Lo avrebbero accettato, come facevano con le storie più colorite sugli dèi o lo avrebbero fatto vivere all’aperto con le capre? Forse avrebbero persino tentato di ucciderlo. Un mostro non aveva alcuna utilità in una fattoria; avrebbe spaventato le pecore. E poi, i mostri come lui davano la caccia agli esseri umani – Ariston lo sapeva bene – e presto tutte le figlie dei vicini sarebbero state sue da prendere.
Guardò a destra, nel punto in cui sua madre soleva sedere vicino al fuoco per riparare i vestiti. Ariston si alzò e le immagini del passato si dissolsero nel presente. Senza mura, poteva vedere la distesa dei terreni circostanti. I campi, dove un tempo avevano pascolato le pecore, erano incolti e incurvati dall’assalto della pioggia. Là, oltre il paesaggio abbandonato, con il monte Elicona che incombeva in lontananza, poggiavano gli alberi fra cui Ariston era solito incontrare le sue amanti, invece che svolgere le faccende domestiche quotidiane. Pan lo aveva colto sul fatto una volta…
Non voleva pensare a Pan. Il dio aveva lasciato gli arcadici da soli, senza alcun rimorso, non appena aveva iniziato ad annoiarsi. Era tempo che Ariston facesse lo stesso. Eppure, qualcosa lo aveva attirato in quel luogo. Forse, per poter andare avanti, doveva prima lasciar andare completamente il passato. Forse il suo senso di colpa aveva bisogno di vedere, bisogno di confermare, che era rimasto davvero solo al mondo. Ritornare, tuttavia, non lo aveva consolato affatto. Macerie e terra e pioggia lo avevano accolto dove una volta c’era stato amore e una famiglia e calore umano. Questa non è più casa mia. Diede una pacca alla borsa in cui aveva posto la pietra del focolare in rovina. No, non aveva più una casa, ma era sempre uno stupido sentimentale.
Dei lampi tagliarono il cielo e un tuono rombò alle sue spalle, come se Zeus stesso volesse suggerirgli di andarsene. Ariston lo fece volentieri. Scese dalla collina e raggiunse il suo cavallo, legato a un albero con rami in grado di proteggerlo dal grosso dalla pioggia. Sentendolo arrivare, l’animale alzò la testa, ma subito dopo tornò a mangiare la sua appetitosa erba, ignorandolo, come se non lo reputasse degno della sua attenzione. Te e tutti gli altri, cavallo. Una volta venduto, al molo, forse avrebbe trovato il suo nuovo padrone più affascinante.
Dopo essersi tolto la borsa e averla messa al sicuro, insieme ai suoi effetti personali, nel piccolo sacchetto appeso alla sella, Ariston controllò di nuovo che la siringa fosse avvolta con cura nei vestiti di ricambio. Il flauto, creato da Pan unendo le canne palustri che avevano fatto da tomba alla ninfa Siringa, si era dimostrato troppo potente per poter rimanere nello stesso luogo troppo a lungo. Pan temeva che lui stesso sarebbe stato tentato di abusare della magia in esso contenuta. Parole importanti, dette dall’unico dio dell’Olimpo praticamente privo di brama di potere.
Quando Xanto gli aveva affidato lo strumento, qualche giorno prima, Ariston si era offerto di lasciare la Grecia. Se ne sarebbe andato in ogni caso, ma la siringa gli forniva una scusa. Come Pan, Ariston non aveva alcun desiderio di usarla. Quando