L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi

L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi


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nascondere la terra, siccome uscita dai suoi precordi! invano. No, rimanga la terra, continui a lambirne i confini estremi l'oceano, la ricuopra il cielo, imperciocchè io le desideri destini migliori, ed anche, vaticinando, io gli spero. Però desiderando e sperando ho detto a me stesso due cose: gli uomini non saranno mai tutti nè in tutto felici; nel tempo in che viviamo, molte piaghe furono sanate, moltissime altre si apersero, nè giungemmo a gran pezza alla cima che i sofisti s'immaginano, nè con le slombate e pedantescamente codarde fisime loro ci perverremo mai. Se Dio levò la mano su tutte le generazioni della terra, e' non appare che fosse per benedirle tutte: alcune egli guarda con occhio ardente, come acceso di collera, e quivi tu incontri il deserto dalle arene infocate; altre egli non guarda mai, e quivi piovono nevi perenni e ghiacci eterni si addensano; ogni speranza di miglior ventura è morta tra loro. Se quello che raccontano può credersi, cioè avere la terra un cielo che si compia mediante ordine lungo di secoli, per cui la Libia un giorno diventerà Siberia, allora, mutata la vicenda della pena sembra che si possa concludere, vivranno sempre i tormentati. Noi non siamo intero sangue latino; — noi uscimmo dal fianco di madri barbare, e molto di loro ritraggono le nostre membra; — dove non mi occorresse altro argomento per confermarmi in questo mio dubbio, me ne persuaderebbe l'odio veramente fraterno che adesso portiamo ai nostri antichi fratelli teutoni. A posta loro essi si spingono verso il mezzogiorno, desiderando scambiare le brume del cielo natio coll'azzurro del nostro, anelando il grappolo delle nostre vigne, l'olivo delle valli: — Lasciate, essi ci dicono, riscaldarci le membra intirizzite ai raggi del vostro sole; — voi ne avete goduto tanti anni! — Importuni Polinici che ci domandano il trono di Tebe, e da noi odiati come Eteocle odiava. Poichè la natura si mostrò a molti matrigna e ad altri molti madre parzialissima, io penso ch'ella abbia gittato nel mondo il pomo della discordia; e qui per quanto uomo s'affatichi, invano speri di trovare rimedio. Ancora nasce il debole ed il forte, nasce l'uomo di alto intelletto e lo scemo di senno; — irreparabili ingiustizie. Con opera non interrotta di secoli l'uomo arriverà forse a bilanciare in parte siffatte discrepanze, ma pure rimane sempre l'apparizione del genio suprema ingiustizia, meteora luminosa che sè stessa arde e gli occhi ai riguardanti consuma, forza prepotente, la quale, secondo che muove Arimane od Oromaze, afferrato pei capelli il suo secolo, lo strascina precocemente verso la libera civiltà o lo risospinge nella serva barbarie. — Ora parlo di noi uomini viventi. A coloro che tra i riposi di molli origlieri immaginano il sogno facile di umana felicità, compassione. A coloro, i quali consultano i destini degli uomini sui libri dalle fodere dorate, e non palpitano per le piazze e pei trivii in mezzo alla plebe vestita il corpo di fango, l'animo di delitto, compassione e dileggio. A coloro i quali non meno vili e più dannosi dei lusingatori cortegiani adulano le moltitudini, dileggio ed obbrobrio. Non sollevate ancora gli occhi alle stelle, avvertite a non traboccare dentro la fossa adesso adesso aperta ai martiri della libertà, o se gli sollevate, fatelo per pensare che i vostri mali vincono di numero le stelle dei cieli; voi avete concetti superiori, proponimenti inferiori al bisogno; mente alta, cuore codardo, braccio infiacchito; voi ordite un secolo avaro e superbo; obliosi movete oggi la danza dove ieri surse il patibolo per i vostri fratelli; come solevano i baccanti, voi empite l'aere di gridi, perchè nè da voi nè da altri s'intendano i lamenti dei mortariati e turbino le vostre vituperose feste; se vi uccidono l'amico, non dirò che a guisa dei lupi vi lacerate a brani il corpo di lui, bensì come pecore stupide continuate la pastura spensierati e leggieri; vanitosi, celebrate i fatti progressi, e non sapete che la millesima parte della lebbra sociale non fu per anche sanata, che, qualunque parte, comechè piccolissima, della lebbra rimanga, di per sè basta a procurare la morte. Teti tuffando Achille nelle acque di Lete obliava bagnargli il calcagno, e Paride, quivi appunto percotendolo l'uccise. I vostri fratelli furono balestrati in esilio, voi appena fuori delle porte gli avete dimenticati; — i vostri fratelli furono percossi di morte, e voi avete avuto, non che d'altro, paura di gemere sopra il fato acerbo di loro... di proferirne il nome! — i vostri fratelli furono sepolti in carcere, e voi non li avete consolati. E voi i civili, voi? Voi non avete la energia della barbarie nè il senno della civiltà virile. Prima di desiderare la libertà, imparate ad essere uomini; — piuttostochè volere repubblica, attendete a purgare i rei costumi. Finchè vi state così superbi, parabolani, frivoli, obliosi, leggieri, pei mali altrui di ghiaccio, fuoco per ogni maniera di diletti, io non abbisognerò della testa di Medusa per farvi impietrire: — pietra siete da voi. — Io vorrei come dentro uno specchio mettervi dinanzi l'anima vostra: — mostro più schifo non partorì natura, nè mente di poeta immaginò.

      Io troppo bene conosco che, da insidiose blandizie lunsingati, saliti adesso, pel discorso inconsueto, in furore, mi maledirete... Maleditemi... e smentitemi, se potete; — intanto io vi dichiaro codardi, frivoli insanabilmente e in tutto degni della presente servitù. — Adesso riprendo la storia.

      Quando avveniva un caso grave di pace o di guerra, in Fiorenza era costume del governo di chiamare a consulta, che dicevano Pratica, oltre i magistrati, certa copia di cittadini autorevoli a fine di ricercarli della loro opinione intorno ai privati pareri. Il quale abuso biasima meritamente l'istorico Iacopo Nardi, come quello che partoriva pessimi effetti; primo, perchè, non potendo adunare tutti i cittadini che invero erano o si reputavano autorevoli, gli esclusi si rimanevano scontenti e queruli; poi quelli che sapevano, secondo la consuetudine, avere ad esser chiamati, poco pregiavano i pubblici uffici e sè non esentavano con danno della repubblica; finalmente, i condottieri e i principi, ai quali bisognava negoziare con Fiorenza, riconoscevano questi concittadini come perpetuo magistrato, e così il governo veniva a perdere di reputazione. Siffatta costumanza cominciò dal tempo delle civili discordie tra guelfi e ghibellini, bianchi e neri, nel quale avveniva che i principali della fazione fuoruscita, tornati vittoriosi a casa, volessero ingerirsi nelle consulte, trattandosi della salute propria e della parte. E quantunque nel secolo della nostra storia cotesta necessità fosse cessata, pur tuttavia continuava il costume; tale essendo la natura delle abitudini, buone o triste elle sieno, quando una volta si lasciano invecchiare nella mente dei popoli.

      Il caso era grave davvero, perchè si trattava se dovesse Fiorenza accordare co' patti dettati dal Papa, o se piuttosto, rotti gli accordi, mettersi alla ventura delle armi. Inoltre il gonfaloniere Francesco Carducci tanto più volentieri aveva adunato la Pratica in quanto che col chiamarci uomini di varie fazioni pensò potere conseguire che, trattando domesticamente tra loro, venissero a dimettere alquanto della scambievole selvatichezza ed accordarsi in pro della patria comune: o se non riusciva a persuaderli di fare di per sè stessi questo bene, convenissero almeno a confermare il gonfalonierato di lui, il quale avrebbe molto acconciamente saputo provvedere alla comune salvezza. Pensò ancora di acquistarsi grazia nell'universale; però che, sebbene si sentisse atto a grandi cose; non ignorava essere giunto a quel sommo grado con sorpresa di tutti e sua, scemargli il credito le poche fortune, il fallimento della sua ragione mercantile in Ispagna, il parentado, comunque illustre (che si vantava discendente di san Giovanni Gualberto, antico barone del contado e galantuomo davvero), oggi ridotto in pochi ed umili capi. Le quali cose, come vedremo, il Carducci non solo non ottenne, ma invece acquistò le contrarie; — colpa non sua, sibbene della fortuna, la quale delle due faccie che gli umani casi presentano, sorridendo all'una, è cagione che l'altra, malgrado gli argomenti umani, vada in rovina.

      Nelle stanze della Signoria assai prima che la campana, detta la Tonaia, chiamasse i cittadini in Palazzo, egli aveva convocato uomini di ogni maniera faziosi. Erano andati prontissimi tutti Iacopo Nardi, Michelangelo Buonarotti, Bernardo da Castiglione, Zanobi Buondelmonti, Lorenzo Cambi ed altri non pochi per amore di libertà: Zanobi Bartolini e Ludovico Capponi per iscoprire gli umori e governarsi a seconda del vento; Luigi della Stufa, Matteo Nicolini, Ottaviano dei Medici, Luca degli Albizzi, Francesco Antonio Nori per paura, tenendo scopertamente per le palle.

      Il Carducci, a mano a mano che giungevano, con dimostranze cortesi gli accoglieva, domandava perdono se avesse loro arrecato disturbo, ma in cosa di tanto momento non credersi facoltato a deliberare senza di loro: attendessero che gli altri venissero; egli intanto esaminare i rapporti della provincia. — E così favellando si accostava ad una tavola immensa ingombra di carte, dove faceva sembiante di leggere. — Il Carduccio, per ordinario pallido, adesso era livido, sia che avesse vegliato la notte, o le cure soverchie lo travagliassero; — e Iacopo Nardi, considerando cotesta sua faccia cadaverica ricinta sotto il collo da un lucco di velluto cremesino, sentì come abbrividirsi dentro, parendogli quelle pieghe rosse rivi di sangue che


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