L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi

L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi


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alla guerra, soldare capitani, fanterie e gente di armi; e, bisognando condurre governatore o capitano generale, a loro spettava considerare diligentemente chi per fede e valore fosse degno di tanto grado, comechè simile condotta non si tenesse per conclusa dove prima non la confermasse il consiglio degli Ottanta. Era parimenti ufficio dei Dieci apprestare le fortezze del dominio, mettervi presidii, artiglierie, polvere e di ogni maniera provvisioni. Avevano autorità di mandare commissari particolari del dominio, od anche eleggere per commissari quelli che andavano in reggimento. Gli ambasciatori e commissari generali sebbene nel consiglio degli Ottanta si creassero, nondimeno, quando andavano ad eseguire i negozi, la Signoria imponeva loro che scrivessero ai Dieci; e quanto questi comandassero, facessero: però gli ambasciatori innanzi la partita andavano per le istruzioni a quel magistrato; giunti presso i principi, a lui scrivevano tutto quello che occorreva, e i comandi che per risposta ricevevano, eseguivano. L'autorità di questo magistrato compariva in diritto eccessiva, perchè poteva muovere guerra, far pace, stringere lega con cui meglio gli pareva: nondimeno in fatto non assumeva sì grave carico, e nelle deliberazioni di momento si consigliava con la Pratica. Furono segretari dei Dieci, col titolo di Segretari della Repubblica Fiorentina, gli uomini più illustri che a mano a mano onorassero i secoli. Tanto piacque nei tempi andati ai Toscani mantenere presso i popoli stranieri fama d'ingegnosi e schivare quella di stupidi: Coluccio Salutati; Lionardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, Cristoforo Landini esercitarono l'ufficio di segretario; più grande di tutti loro Nicolò Machiavelli, a, cui, ristorato il governo repubblicano, fu per opera degli ottimati preferito un Francesco Tarugi di Montepulciano, e questo morto di lì a breve tempo, con molto migliore consiglio elessero per segretario Donato Gianotti, reputato e dabbene, dalle opere del quale sono estratte per la massima parte le precedenti notizie[127].

      Già la sala era ingombra di cittadini chiamati dal suono della campana; e andavano trattenendosi in vari ragionamenti, divisi in capannelli, liberamente discutendo le proprie opinioni, sicchè ne usciva un frastuono simile al zufolio del vento per le foreste. Quando comparve la Signoria ogni uomo si tacque e si affrettò ad occupare il posto conveniente alla dignità di ciascheduno. I magistrati si posero sulla ringhiera, il popolo per le panche, il gonfaloniere con la Signoria sopra il suo seggio.

      Appena seduti e ricambiato il salutare, i tavolaccini apersero l'ultima porta della sala a mano sinistra del gonfaloniere, ed uno di loro gridò:

      «I magnifici ambasciatori.»

      E subito dopo furono veduti entrare Iacopo Guicciardini, Andremo Niccolini e Luigi Soderini, mesti in sembiante e in gramaglia, cosicchè a molti quella improvvisa comparsa era segno di augurio sinistro. Fattisi presso al seggio dei signori, con molta solennità gli ossequiarono, aspettando per favellare che ne fosse loro trasmesso il comando.

      «Quando partiste», cominciò il gonfaloniere, «da Fiorenza, eravate quattro. Donde avviene che siete scemati? Dov'è messer Niccolò Capponi? Quale cura lo trattiene adesso?»

      «Nissuna: — anzi egli adesso va sciolto da tutte, rispose Iacopo Guicciardini. — In Castelnuovo di Garfagnana spirò la sua dabbene anima, invocando la patria e con preghiere caldissime raccomandandola.»

      Lorenzo Segni, che per avere condotta a moglie la ginevra, figliuola di Piero Capponi, era cognato di Niccolò, udendo l'acerba novella, forte si percosse la fronte ed esclamò:

      «Ahimè! perdemmo il migliore cittadino di Fiorenza.»

      Lionardo Bartolini, soprannominato il Leo (il quale era uno dei Sedici; e patteggiando per la setta degli Arrabbiati, non si scompagnava mai da Bernardo, Lorenzo, Giovambattista, Dante ed altri della famiglia Castigliona; da Battista del Bene, detto il Bogia, Giovanni degli Adimari chiamato Zocone, Giovanni Rignadori, per soprannome Sorgnone, ed altri della medesima setta), mal comportando la lode smodata ad uomo, che sempre avevano ripreso mentre viveva, rispose ad alta voce:

      «Ed il peggiore magistrato...»

      Lorenzo, levando la faccia e torcendo nel Bartolini gli occhi dove il subito furore aveva inaridito le lacrime della pietà, come quello che arditissimo uomo era, con grande animo soggiunse:

      «A me non faceva mestieri altro esempio per convincermi essere i peccati delle republiche la ingratitudine e la invidia.»

      «Via il pallesco! — Taccia l'ottimato! — silenzio!...»

      E queste parole con gridi deliranti si urlavano, con frequente pestare di piedi e gesti furibondi, dalla fazione degli Arrabbiati.

       «Silenzio a tutti!» balzando in piede dal suo seggio prorompe il Carducci.» Non è luogo questo, nè qui foste adunati per celebrare o riprendere le azioni dei cittadini. Il predicatore al mortorio preconizzerà il defunto messere Nicolò; la storia lo giudicherà nei suoi volumi. Ambasciatori, esponete.»

      «Quantunque», con voce concitata incominciò a favellare Iacopo Guicciardini, «a noi fosse più grave patirli che a voi ascoltarli, ci sia non pertanto permesso di tacere gli strazii vergognosissimi co' quali papa Clemente, il dabben cittadino, intese a renderci contennendi davanti i maggiori baroni della cristianità adunati a Bologna per la incoronazione dell'imperatore. Noi non mancammo, a seconda delle istruzioni ricevute, di visitare i cardinali Farnese, Santa Croce e Campeggio; in particolare colloquio raccomandammo la Repubblica al gran cancelliere, ma, secondo il costume di corte, avemmo cerimonie e c'industriammo ottenere la udienza promessa dal maggiordomo maggiore. Dopo lungo aspettare per bene quattr'ore, vilipesi e derisi nelle anticamere, fummo licenziati a cagione che, essendo sopravvenuto a Sua Maestà un subito negozio, non poteva darci ascolto[128]. Non mancammo però di complire monsignore di Nassau, il quale, poco intendendo, meno facendosi intendere, non so se per dileggio o per ignoranza, rispose non bisognare intercessione, però che il papa, essendo dei nostri, avrebbe certamente adoperata benignità alla sua patria. Don Francesco di Covos, commendatore maggiore di Lione, invece di confortarci, ci minacciava guai, se non avessimo convenuto con Sua Santità e presto. — Ah! cittadini miei, quanto io ami la patria, sapete; i sagrifizi che io sono pronto a fare per lei potrete uguagliare, non superare. A me poco premono gli averi, la vita nulla: e nondimanco io torrei piuttosto danni anche maggiori, se maggiori si possono apportare all'uomo, che soffrire un'altra volta tormento come questo, senza pari nel mondo. Per compire intiero l'ufficio doloroso, non volemmo tralasciare il confessore di Cesare, il quale distintamente ci rispose avere Sua Maestà fatto consigliare questa causa, tenerla giusta, tanto più poi persuadendola il vicario di Cristo e cittadino della nostra città; per la quale cosa doveva presumersi fosse non pure giusta, ma pia; inoltre avere Cesare obbligata la sua parola e non esserle per mancare giammai, sapendo egli confessore che Cesare era quanta fede fosse nel mondo. Ancora disse che la città, per avere stretto lega co' Francesi e mandato gente al campo di Lautrec a sovvenirlo nella impresa di Napoli, doveva considerarsi decaduta dai privilegi concessi dai passati imperatori.»

      Un turbine di grida interuppe l'oratore, che si rimase con labbra tremanti, ansioso di proseguire; e alla domanda di Dante da Castiglione, la quale, malgrado il trambusto, gli percosse piena le orecchie al modo di tuono:

       «E con qual fronte sosteneva costui siffatte scelleratezze?»

      «Con fronte da frate», rispose il Guicciardino, «e con atti tali che sembrava crederle come appunto le diceva. Ma loro io non incolpo; — ai nemici non bisogna chiedere nulla: ben io mi dolgo e in pieno consiglio ricordo, affinchè i padri insegnino ai figli, i figli ai nipoti, ad abborrire eternamente i nomi dei cardinali Ridolfi, Salviati e Gaddi, fiorentini tutti, alla patria spietati, solo di sè curanti, nè a fame nè a lacrime e nè a disperazione credenti, purchè la mensa abbiano di vivande preziose imbandita e ascoltino i motteggi dei loro buffoni[129] o i suoni dei musici. Dalle istanze supplichevoli, dagli umili scongiuri che cosa acquistammo noi? Stolti conforti, come la gente chiericuta costuma di rassegnarci ai divini voleri, quasi Cristo predicatore alle turbe della libertà potesse mai volere schiavi i suoi figliuoli! — Ma qual bestemmia mi usciva di bocca? Io ti domando perdono, Gesù crocifisso, signore e padre della Fiorentina Repubblica. Tu nulla hai di comune con i preti di Roma; quando te invocano, quando te rammentono, certo col tuo stesso nome vogliono significare qualche altro Dio. Tu versasti il tuo sangue prezioso per la salute degli uomini, — i preti hanno raccolto quel sangue e lo hanno ministrato ai popoli misto di veleno...»

      E


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