La vita Italiana nel Seicento. Autori vari

La vita Italiana nel Seicento - Autori vari


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una propaggine, la quale spegne ogni libertà di coscienza e di pensiero; è finalmente la furia di combattimento e di espansione dei Gesuiti. Tutto questo coopera ad un sol fine, obbedisce ad un solo comando, si muove com'un uomo solo, e se confrontate la nostra presente confusione ideale e morale con quella salda e tremenda compagine, sarà il miglior mezzo di convincervi non della nostra debolezza, chè forse non ne avrete bisogno, ma della enorme potenza di quella organizzazione.

      Dell'Inquisizione, dico chiaro, mi ripugna a parlare. È un'instituzione abietta ed odiosa fino dai suoi principii, durante il Medio Evo, come ha tanto bene dimostrato di recente e con grande imparzialità un illustre storico Americano, Enrico Carlo Lea, e tale si conservò, anche quando, nel 1542 fu trapiantata in Italia.

      Non è così dei Gesuiti. Per quanto è dato discernere il vero fra tanto furore di accuse e di difese, a cui furono fatti segno in ogni tempo, per quanto sembri provato che la Compagnia di Gesù incominciasse a deviare dal proprio instituto quasi subito dopo la morte di Ignazio di Lojola, per quanto sia certo che in progresso di tempo, inebbriata della propria potenza, ricca, intrigante, presente e agitantesi ovunque dalle reggie ai tuguri, ne deviò sempre più, e si corruppe e intristì nella setta; pure ne' suoi primordi, o in relazione almeno al momento storico, di cui ci stiamo occupando, quand'essa cioè incarnava ancora, al pari del Lojola, lo spirito cavalleresco e il misticismo Spagnuolo, l'uno e l'altro fecondati da un ardente ambizione, quando colla più strana mescolanza di pietà, d'abnegazione, di fanatismo, d'astuzia, d'energia selvaggia, senza scrupoli sulla scelta dei mezzi, come senza esitanza, si gettava a corpo perduto nella lotta, quando alla fine del secolo XVI si vedeva già sparsa nelle quattro parti del mondo, dominare in Italia, in Spagna, in Portogallo, guadagnare in Francia un terreno contrastatole palmo a palmo, e serrare da presso in Germania il focolare del Protestantismo da Vienna, da Praga, da Ingolstadt e da Monaco, non possiamo, comunque si pensi, difenderci da un sentimento d'ammirazione per questo audace manipolo d'uomini, che giustamente furono chiamati i Giannizzeri del Papato e della Reazione Cattolica. Esagera bensì il Macaulay attribuendo loro ogni merito d'avere salvato il Cattolicismo, fermati i progressi della Riforma e respintala dai piedi dell'Alpi alle coste del Baltico, perchè si dimenticano così Filippo II, l'Inquisizione, il Concilio di Trento, la Casa d'Austria e quella dei Wasa di Polonia, le grandi forze insomma, senza le quali poco o nulla avrebbero potuto Ignazio di Lojola e la sua milizia.

      Non è men vero ad ogni modo che in quel momento, in cui la Chiesa Cattolica si trasforma tutta in una grande missione, i Gesuiti, tipo vero di quella nuova specie di frati, non più puramente ascetici e contemplativi, ma in continuo contatto con la vita, i Gesuiti, operosi, instancabili, sono all'avanguardia della parte più militante, e nel tempo stesso che disfanno il passato, preparano l'avvenire, sottentrando colla loro azione, che sa trasformarsi in mille guise alla libera azione individuale, non per sopprimerla, ma per dominarla e avviarla ai fini soltanto che si propone la Chiesa.

      Or eccovi, signore, il grande edificio della Reazione Cattolica compiuto in tutte le sue parti. L'assolutismo Spagnuolo dal 1559 al 1700, dal trattato di Castel Cambrese alla prima guerra di successione, domina quasi tutta l'Italia. L'assolutismo papale, ritempratosi nella Controriforma, stende la sua azione al di là delle Alpi e del mare, ma strettamente unito al dominatore Spagnuolo, fa sentire in Italia più immediata e continua la sua potenza. La quale è in realtà così grande, che con Pio V sembra quasi ridestare lo spirito delle Crociate e oppone ai Turchi una Lega, vincente a Lepanto l'ultima gran battaglia cristiana, e con Sisto V pare non avere più confini ne' suoi sogni d'ambizione e vagheggia un'alleanza colla Persia e la Polonia per abbattere l'Impero Turco, congiungere il Mediterraneo al mar Rosso per restituire il primato marittimo all'Italia, conquistare il Santo Sepolcro, di cui il Tasso cantava la liberazione, e trasportarlo a Montalto, l'umile paesello presso Ascoli, dove Sisto V era nato. Sogni, deliri di potenza, e non più, perchè se l'Italia, sotto la duplice dominazione, da cui è compressa, perde quasi la coscienza dell'esser suo, la Spagna si accascia via via sotto il peso della grandezza in una decadenza irrimediabile, ed il Papato devia, durante il Seicento, dal concetto religioso, che gli avea rifatte le forze, in un concetto sempre più personale ed esclusivamente principesco, che ha bensì nello splendido San Pietro, come ha dimostrato Giacomo Barzellotti, la sua più caratteristica e monumentale espressione, che fonda in Roma bensì col nepotismo finanziario una aristocrazia nuova, ma dischiude al Papato altre lotte, alle quali non potrà più opporre il sentimento, la vigoria e la rinnovata giovinezza di prima, quantunque sia riescito per ora nient'altro che a far di tutti gli Stati Cattolici un istrumento della Chiesa.

      Innanzi che incominciasse questa seconda fase della Reazione Cattolica, i Papi e la Corte, Roma e l'Italia, a dar retta almeno a quanto scrive nel 1576 l'ambasciator Veneto, Paolo Tiepolo, erano già divenuti modelli di pietà, d'onesto vivere e di cristiani costumi. Ma c'è da fidarsi del tutto a queste impressioni di viaggiatore? Non v'ha dubbio che un gran mutamento era avvenuto, un gran fervore di sentimento religioso s'era ridestato, ma c'è d'altra parte il terrore, che domina ovunque; c'è l'ombra dell'Inquisizione, che aduggia tutto; c'è il fare accomodante, procacciante, instancabile dei Gesuiti, che s'insinua per tutto; c'è il costume Spagnuolo, tutto cerimonie e sussiego nobilesco, tutto boria e gale di titoli, di privilegi e di pretesi dogmi cavallereschi, che nella vita di Corte accentra ogni ideale delle alte classi e sempre più le separa dal popolo, sfruttato a sangue, e cui non rimane altro conforto, che la rassegnazione consigliatagli da un cappuccino, o altra speranza, che quella della vita eterna, annunziatagli dal campanile della parrocchia; c'è finalmente il vecchio scetticismo pratico Italiano, il quale o combina il di dentro e il di fuori in modo da non aver seccature, e avete la falsità nei caratteri e l'ipocrisia nei rapporti sociali, o non piega e si ribella, e allora avete i martiri, che sfidano la tortura ed il rogo, oppure avete la vita eslege del brigante, frutto indigeno dell'Italia e della Spagna, o la vita, eslege del pari, del signorotto violento, gli Innominati e i Don Rodrighi dei Promessi Sposi.

      Questo in pieno Seicento. Prima c'è un tempo d'intervallo, di contrasto spasmodico fra il vecchio e il nuovo e di tale contrasto il tipo e la vittima è Torquato Tasso. Una volta la storia di lui era assai semplice. Un gran poeta innamorato d'una principessa; un tiranno spietato, che lo castiga del suo ardimento collo spedale dei matti, colla carcere, colle beffe dei pedanti e dei cortigiani, e il poeta che muore di sfinimento in un convento di Roma, mentre s'odono di lontano le campane del Campidoglio suonare a festa per la sua coronazione. Ora questa leggenda è sfatata. Non per questo il Tasso è divenuto un felice di questo mondo, ma è infelicissimo per tutt'altre cagioni: perchè non può mettere pace nell'animo suo, nè come uomo nè come poeta, fra i ricordi del Rinascimento e le violenze della Reazione Cattolica; perchè dubita e crede; perchè vorrebbe esser uom libero e la vita di Corte è per lui come certe donne, con le quali non si può vivere nè viver senza di loro; perchè si sente originale e grande e nello stesso tempo indulge e piega per vanità e per paura ai cattivi gusti del tempo; perchè è mistico e sensuale; perchè ha ragione il Carducci di definirlo il solo Cristiano del Rinascimento, come ha ragione il Quinet di definirlo il solo umanista della Reazione Cattolica. Di tutto questo contrasto, che gli avvelena la vita, impazza e muore.

      Non più in contrasto fra due tempi, ma in pieno accordo col Seicento, è invece il Marini con la sua vita e con l'opera sua. Si giunge a lui, passando a traverso l'idillio sensuale e musicale dell'Aminta del Tasso e del Pastor fido del Guarini, e la sua intima correlazione col tempo non sta tanto nella goffa e proverbiale esagerazione della forma, quanto e più nel fatto che il suo poema, l'Adone, è il vero poema epico del Seicento, il poema della voluttà sentimentale, dissimulata sotto il velo ipocrita dell'allegoria, il poema della pace, ma dell'ignobile pace dell'Inquisizione, del Gesuitismo e della dominazione Spagnuola. È lui, il Marini, il dittatore universale, nè gli si oppone che il poema eroicomico, la Secchia Rapita del Tassoni, della cui misteriosa ironia l'Inquisizione diffida, ma non sapendo bene da che lato colpirla, processa il poeta per aver regalato alla sua serva un diavoletto chiuso in una boccia d'acqua, che a premerne il tappo sgranava gli occhi e andava su e giù, come se fosse vivo.

      Opposizione vana ad ogni modo quella del Tassoni; al pari della satira politica del Boccalini e di qualche nobile accento di Salvator Rosa, poichè il Marini fa scuola e le due caratteristiche del Marinismo, la sentimentalità voluttuosa e lo sforzo della forma, cogli svolazzi, le riprese, i trilli, i gorgheggi


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