La vita Italiana nel Seicento. Autori vari

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ma non tutti ugualmente, nè tutti ad un tratto, perchè questi mutamenti a scatto d'orologio nella storia non si danno, ed è già troppo, a mio avviso, assegnare per la sola pittura, ad esempio, il principio della sua decadenza al 1530, come fa il Burckhardt nel suo Cicerone, e non dico nulla del Ruskin, scrittore di grande ingegno, ma critico paradossale e Puritano intrattabile, il quale non si contenta dei fulmini e delle contumelie, che scaglia sulla povera arte, svoltasi poi sotto l'influsso della Reazione Cattolica, ma giudica già una decadenza lo stesso Rinascimento ed un manierista Raffaello!

      In quella vece da Paolo III a Clemente VIII occorrono non meno di dodici regni di Papi, quattro dei quali bensì brevissimi o insignificanti, perchè si possa dire spostato il centro del Rinascimento, di cui va via via scemando in Italia ogni spontaneità creatrice, e perchè Roma ridivenga alla sua volta centro d'un altro gran moto, cioè della Reazione Cattolica, e così prevalga ancora nuovamente nel mondo.

      Comunque, il termine di tempo è pur sempre cortissimo per così enormi risultamenti, settant'un anni e non più, anche calcolando non dal convegno di Bologna alla fine del secolo XVI, ma dal Papato di Paolo III, durante il quale si avverte appena che il Rinascimento sta per finire, a quello di Clemente VIII, in cui Roma e l'Italia sono talmente mutate da non riconoscerle più per quelle di prima.

      Pur troppo il tempo cammina svelto nella eterna Roma, e strani giuochi di fortuna prepara, tanto più sbalorditoi, quanto più Roma vi dà l'ammaliante illusione che il tempo non passi mai e che si possa sempre fare a fidanza con esso!

      Ne volete altra prova? Per certo la maggior parte di voi conosce Roma e per conseguenza San Pietro. Or bene, viaggiando colla fantasia, entriamo in San Pietro e nell'abside di fondo fermiamoci a sinistra dinanzi al monumento sepolcrale di Paolo III Farnese. Quella nobile e bellissima figura di Papa barbuto e meditabondo, quelle altre due figure di donna, coricate davanti al sarcofago, l'una vecchia e l'altra giovine, e rappresentanti la Prudenza e la Giustizia, vi dicono, nella loro composta e vigorosa magnificenza, che siamo ancora in piena arte del Rinascimento. Tanto più ve lo dice la tradizione storica, la quale riconosce nell'una di quelle donne il ritratto di Giulia Farnese, la Du Barry dei tempi Borgiani, e nell'altra il ritratto di Giovanna Caetani di Sermoneta, la madre del Papa; curioso accozzo in verità e di una disinvoltura quasi sacrilega in quell'occasione e in quel luogo. — Ora voltiamoci indietro e guardiamo all'altro monumento sepolcrale, che sta di fronte al primo. È il sepolcro di Papa Barberini, Urbano VIII. La testa del Papa col triregno è bella; è anch'esso barbuto, ma non colla barba all'Enrico IV o coi mustacchi alla Wallenstein di altri Papi del secolo XVII. Pur tuttavia quello scheletraccio alato e dorato, che, seduto a sghimbescio su un'urna nera, registra il nome del Papa nel libro dei morti, tutto quello svolazzo e tormento di pieghe nelle vesti, tutti quegli atteggiamenti teatrali, cascanti e manierati delle altre figure, non solo vi dicono che siamo già a tutt'altro tempo, a tutt'altra arte, ma il nome stesso del Papa, che per sua sventura condannò Galileo, che ebbe assai più sentimento di gran principe che di Papa, che, durante la guerra dei Trent'anni, per odio alla grandezza degli Absburgo, badò assai più ai motivi politici che non ai motivi religiosi di quella titanica lotta, vi dice altresì che il tempo della Reazione Cattolica è esso stesso oltrepassato e che il Papato s'incammina già per quella via di sfarzo principesco e di assolutismo monarchico, per la quale fu avviato bensì dalla Reazione Cattolica contro la Riforma Protestante, ma, seguendo la quale, dovrà poi scontrarsi a tutt'altri ostacoli ed a tutt'altre resistenze. Eppure tra l'una e l'altra età, a cui si riferiscono que' due monumenti, tra l'uno e l'altro di quei due Papi, tra Farnese e Barberini, neppure un secolo è corso, ottantanove anni e non più!!

      Un singolare destino ebbe Paolo III! Ch'esso sia il vero Papa della transizione fra il Rinascimento e la Reazione Cattolica lo dimostrano dall'un de' lati essere stato fatto cardinale (e per che vie!) da Papa Borgia, essere stato educato all'umanismo nell'Accademia di Pomponio Leto e al gusto dell'arte nella Corte di Lorenzo il Magnifico, aver fatto compire a Michelangelo il Giudizio e voltare la cupola, fatto lavorare il Cellini, edificato il Palazzo Farnese e, non scoraggiato dall'esempio dei Borgia, aver mirato ed essere riescito a fondare un regno ai nipoti, e dall'altro lato aver esso creato cardinali il Sadoleto, il Polo, il Giberti, il Fregoso, il Contarini, il Caraffa, i primi quattro inchinevoli bensì a conciliazione coi Protestanti, ma tutti zelantissimi di una riforma interna della Chiesa, ed il quinto il rappresentante della repressione e della resistenza a tutta possa, aver introdotta in Italia l'Inquisizione spagnuola, approvata la Compagnia di Gesù, la riforma e l'istituzione di altri ordini religiosi, e finalmente avere aperto il Concilio di Trento, con che si può dire che Paolo III, quantunque per indole e per gusti fosse di suo assai mediocremente zelante e appartenesse più al Rinascimento che alla Reazione Cattolica, pure, spinto dalla forza delle circostanze e soprattutto dal risveglio dello spirito religioso manifestatosi nella Chiesa, organizzò sotto il suo pontificato tutti i principali e più formidabili strumenti della Reazione Cattolica.

      All'apertura del Concilio però non s'indusse che con la maggior ripugnanza e resistette sinchè potè. Ricordava con terrore gli ultimi quattro: quello di Pisa, che avea deposti due Papi; quello di Costanza, che sotto la presidenza dell'Imperatore avea condannata bensì l'eresia di Giovanni Huss e di Girolamo da Praga, ma s'era poi trasformato in vero tribunale giudicante il Papa e il Papato, avea costretto tre Papi ad abdicare ed accentuata all'estremo la tendenza delle Chiese nazionali ad emanciparsi da Roma mediante i concordati; quello di Basilea, che era stata una vera ribellione alla supremazia dell'autorità Papale; e finalmente il Lateranense, opposto da Giulio II ad una ripresa del vecchio conciliabolo Pisano, e che Leone X avea dovuto con disinvoltura Medicea affrettarsi a chiudere, affinchè non uscisse di carreggiata.

      Paolo III quindi resistette, ripeto, sinchè potè, e quando piegò per forza alla deliberata volontà di Carlo V, che già alle prese coi Protestanti di Germania lo imponeva ad ogni patto, traccheggiò ancora, ed il Concilio, dopo infiniti sì e no, convocato a Trento nel 1542, si prorogò al 1543 è in realtà non fu aperto che nel 1545.

      Se non che fin dalla prima sessione nè corrispose ai desideri di Carlo V, il quale, benchè Cattolico fervente, vagheggiava qualche mezzo termine, che gli consentisse d'intendersi coi Protestanti e pacificare la Germania, tutta in subbuglio, nè giustificò le timide apprensioni del Papa, se pure anzi non superò ogni sua aspettazione.

      Per mia e vostra fortuna, signore, io non posso neppure compendiarvi la storia esteriore del Concilio di Trento, nonchè entrare nel merito delle sue discussioni. Il Concilio di Trento ebbe, come sapete, due grandi storici italiani, l'uno Fra Paolo Sarpi, l'altro, il cardinale Pallavicini, gesuita. Sono due storici classici, ma due storici di partito, e chi si colloca su questo terreno (una trista esperienza ce lo mostra ogni giorno) non può, non vuole nè conoscere, nè dire la verità. Tant'è che queste due storie sono non solamente l'opposto l'una dell'altra, ma il mondo Cristiano è, dice il Ranke, diviso in due nel giudicarle, nello stesso modo che è diviso in due nell'apprezzare pro o contro l'opera del Concilio di Trento.

      Certo l'uno, il Sarpi, tira tutto al peggio e interpreta tutto sinistramente, l'altro, il Pallavicini, difende tutto e, scrivendo per confutare il Sarpi, non gli lascia passare una parola, un fatto senza contraddirlo, e dove la verità di ciò che ha scritto il Sarpi salta agli occhi, allora gira largo, o ricorre alle fiorettature, agli sbalzi, ai bagliori incerti dello stile, dei quali gli scrittori del suo Ordine sono sempre stati maestri, e nei quali in Italia purtroppo hanno fatto tanti discepoli.

      In buona fede piena non lo sono nessuno dei due, perchè il Sarpi, acceso d'amore per la sua Venezia, che lotta contro le usurpazioni di Roma, detesta la Roma di Paolo V Borghese, quell'orgoglioso, che ha scritto il suo nome di famiglia sul frontone di San Pietro, non meno del Concilio di Trento, che ha costituita Roma qual egli la vede al suo tempo, ed il Pallavicini scrive per commissione del suo Ordine, ch'era stato il grande inspiratore e maneggiatore del Concilio di Trento.

      Quanto a me però dico il vero, il Pallavicini lo intendo e me lo spiego. Tutto invece nel Sarpi, tranne il suo patriottismo Veneziano, mi rimane, come ad Edgardo Quinet, un enigma. Il suo libro somiglia al Principe del Machiavelli. Nel Principe, coi fatti della storia alla mano si mostra con che arti si fondi e si mantenga uno Stato in tempi corrotti. Nel libro del Sarpi si mostra con che arti si pretenda riformare una religione, quand'essa ed il tempo sono corrotti del


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