La vita Italiana nel Seicento. Autori vari

La vita Italiana nel Seicento - Autori vari


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      Nè, in paese così diviso politicamente, poteva esser segnacolo comune di riscossa, una qualsiasi dissidenza religiosa dalla potenza dominatrice. I parziali moti, i conati individuali non contano; l'Italia era rimasta cattolica, più assai che per meditato e cosciente convincimento, per quella gioconda indifferenza verso i grandi problemi religiosi, ch'era una fra le più infelici conseguenze del Rinascimento; gli effetti, del resto considerevoli assai, della contro-riforma o rimbalzo cattolico, bastavano ad acquietare le coscienze di coloro, pe' quali in qualche cosa altro, che nelle estrinseche pomposità del culto, consisteva la Religione.

      Ogni comune centro di vita, ogni vessillo, sotto cui tutta si fosse potuta raccogliere ad impresa che, per la mole dell'avversario, e per la sua situazione nella Penisola, tutte avrebbe richieste le forze della Nazione, mancava dunque all'Italia. Si portavano ora, nel servaggio, le pene delle antiche colpe. Le forze abusate e sfrenate, le idee, con colpevole leggerezza sfatate, mancavano all'opera del riscatto, più per la difficoltà di adattare ad essa una disciplina, che per reale esaurimento delle energie nazionali, che inquiete s'agitano, anzi, si sviano, e traviano; mancava, e questo era il peggio, a una gran parte di quella Nobiltà, senza la quale Popoli o Dinasti nulla in tale età avrebbero potuto tentare, la misura del vilipendio, in cui s'era lasciata cadere la Patria; della Patria stessa e della dignità propria s'era oscurata l'idea negli animi, compri dalle bugiarde onorificenze e da' ciondoli, che tanta bile muovevano all'Autore, qualch'egli sia, delle Filippiche, e a quello della Pietra del Paragone Politico.

      E ogni giorno arrogeva al danno. Non m'attenterò a rifare il quadro, che con mano maestra fu condotto da Alessandro Manzoni, della impotenza arrogante, della insipienza presuntuosa, con cui gli Spagnuoli sgovernavano il Ducato di Milano. Da quello, ben noto, può ciascuno argomentare qual si fosse la condizione dei Regni meridionali; dove, avendo meno da temere di Potentati vicini, i quali degli errori spagnuoli e del malcontento eccitatone facessero loro pro, la rapacia, e la insolenza spagnuola si sfrenavano bene altrimenti; e dove la mole dell'ufficio alle ree loro mani commesso, e le forze di cui disponevano, inanimavano i Vicerè o a farsi belli a Madrid con più feroci esazioni, o ad assumere in esizio dei popoli miserrimi, e a sodisfacimento di loro ree cupidigie, gli atteggiamenti d'una indipendenza, che taluno fra loro sognò, forse, completa. E ben potevasi sognare in Napoli dal duca d'Ossuna, una corona indipendente se, nel dimezzato Ducato di Milano, il governatore Fuentes aveva potuto rifiutarsi di mandare in Fiandra i 30000 soldati, che, finito l'affare di Saluzzo tra Enrico IV e Carlo Emanuele I, gli si ridomandavano dal suo Sovrano. Ai moti, che nel Popolo la fame e la tracotanza degli esattori destò, la Nobiltà venne meno, dedita, più che in altra parte d'Italia, a Spagna, che la pasceva di vento; tenera de' fumosi privilegi, e, per la varietà delle origini sue, difficile a consentire in un unico simbolo. Di volgersi a un Principe italiano, nè Grandi, nè Popolo avrebbero fatto il pensiero, chè saria parsa loro dedizione di loro autonomia, assoggettamento di Provincia vassalla a Stato sovrano; Principi chiamati di fuora, come i Guisa, avrebbero avuto per sè, sola quella parte che risaliva ad origini francesi, o a spagnuole. In Sicilia le rivalità feroci tra Messina e Palermo, e nella stessa Messina le opposte fazioni di Malvezzi (liberali) e Merli (assolutisti) guarentivano a' Re spagnuoli la inanità finale d'ogni risentimento, meglio e più che un esercito.

      Meno nota in genere, perchè difficile a cogliersi in un prospetto sintetico, più lunga a narrarsi, che non paia consentito dalla relativa picciolezza di certi eventi, la condizione de' Principati, cui rimaneva dopo il 1559 un'ombra di indipendenza.

      D'essi, alcuni erano Dinastie recenti; come Farnesi e Medici; altri di recente, dopo procelle terribili, tornati in Stato, come casa Savoja; altri, infine, oltre le italiane, avevano sulle braccia faccende di gran momento fuori d'Italia, come il Papa e Venezia. Si trattava per loro di assicurarsi con una buona amministrazione la tranquillità interna; d'evitare all'interno ed all'estero conflitti, ne' quali il recente o il rinnovellato edifizio fosse posto a troppo duri cimenti, od offrisse opportunità all'altrui cupidigia sempre sollecita e intraprendente.

      Ed invero, quanto ad amministrar bene lo Stato, taluni di quei fondatori o rinnuovatori di Dinastie porsero meditabili esempî. Le cure di Emanuele Filiberto per italianizzare di lingua, di cultura, d'interessi il suo Stato, ritolto tutto di mano a' prepotenti occupatori, e accresciuto della contea d'Oneglia comprata a' Doria; i provvedimenti per aver molte e pronte e buone armi, senza invocar mercenarî, col vietare a' suoi nobili di farsi mercenarî essi negli eserciti altrui, sono le ben note sue glorie. Meno noti, ma non meno gloriosi sono gli accorgimenti con cui, tolti di mezzo gli Stati generali, ch'erano omai custodi di vieti privilegi nobileschi e preteschi, anzichè di libertà, sciolse da ogni rimanenza di vincoli feudali le persone; e la giustizia distributiva con cui, gravando più ugualmente la mano su tutti gli ordini della cittadinanza, triplicò in breve le entrate del Ducato. Nè sono da tacere le molteplici cure date all'annona, all'igiene, all'agricoltura, alla sericoltura (promosse con le leggi e col proprio ducale esempio), agli studî sì di Scienze, che di Lettere e d'Arte; nè il freno posto alle intemperanze clericali, e la libertà restituita a' Valdesi.

      “Bella e cappata gente„ chiama il Botta, nel suo antiquato ma vigoroso linguaggio, le milizie di quel Cosimo I, che nelle galee di San Stefano trovò un utile sfogo al Patriziato fiorentino, i cui vivaci spiriti piacevagli bensì rimuovere dal tentar nuovità interne, ma non sviare, o fiaccare. La Maremma senese, ch'egli ebbe con settemila abitanti, ne contava già, alla sua morte, circa a venticinque mila. Gli altri provvedimenti per la finanza, rispondevano a questi. Grande il merito suo nel tenere, come tenne, tranquillo senza efferatezze il paese, tutt'altro che quieto per sè; e si parve sotto il troppo minore suo figlio Francesco, quando nei primi diciotto mesi del governo di costui quasi duecento tra ferimenti e omicidî funestarono la sola Città di Firenze. Men felice la casa Farnese; nella quale potò bensì la buona amministrazione d'Ottavio far dimenticare in parte a' Piacentini e a' Parmensi le nequizie di Pier Luigi; ma Alessandro, più che a' sudditi suoi, prodigò, mal rimeritato, l'alto ingegno e la forte anima a Spagna nello sterile affanno del debellare le Fiandre; Rinuccio primo, tra' sospetti e le vendette imbestiò; sinchè quella gente parve ravviarsi a una politica estera ed interna più sana con Odoardo.

      Il virgiliano Res dura et regni novitas me talia cogunt Moliri, ben s'addice alla prontezza colla quale Cosimo, ed altri di que' Principi novelli, s'affrettavano a spegnere ogni favilla d'incendio. Lo stento con cui, tuttochè Generalissimo di Spagna, vincitore di San Quintino per una parte, cognato del Re di Francia per l'altra, Emanuele Filiberto ricuperava da Francesi e da Spagnuoli gli Stati suoi, e la stessa Torino destinatane capitale; la agevolezza colla quale, dopo la uccisione del mostruoso Pier Luigi, s'era disciolto, tra Ecclesiastici e Spagnuoli, lo Stato Farnesiano, e le pene che c'eran volute a ricomporlo, e le condizioni sotto le quali Spagna aveva restituito Piacenza, ammonivano a guardarsi da agitazioni, chi volesse conservarsi lo Stato; e l'interesse de' Principi era qui interesse de' Popoli, che certo da Estensi, da Medici, da Farnesi non avevano mai da temere quel che da Spagna; e che in ogni caso, restavano almeno italiani.

      Se la Spagna vegliava, e se conscia a sè stessa d'una già incipiente disproporzione fra le formidabili parvenze e la limitata realtà delle posse, ell'era ferma nel non tollerare incrementi de' Principi italiani, anco devoti apparentemente a lei, lo mostrarono i suoi sordi furori e le minaccie iraconde allorchè seppe della profferta che, stanchi della oppressione genovese, avevan fatta di sè a Cosimo i Còrsi, e la inclinazione di Cosimo ad accoglierli sotto il suo non libero ma ordinato Governo.

      Ond'è da ammirarsi insieme la sagacia e il felice ardimento di Pio V e di Cosimo, nel conferimento del titolo e della corona granducale, con cui volevasi por termine alla contesa della precedenza fra Toscana, Casa d'Este e Savoja; contesa incresciosa, non oziosa; quando trattavasi di crescere autorità e forza a un libero Stato italiano, men saldo sino a que' dì che Savoja, men coperto che gli Estensi dalla sovranità papale. È da ammirarsi Cosimo in quel matrimonio tra Francesco I e Giovanna d'Austria, che riuscì infelice non per colpa di lui, e che ad ogni modo poneva sagacemente l'un contro l'altro i due rami di Habsburgo, e metteva Cosimo in grado di lentare, per una parte, i lacci spagnuoli; per l'altra, di rispondere non senza fermezza all'Imperatore stesso, che scriveva altezzoso a proposito del trattamento fatto a Giovanna.

      L'alleanza francese, o il bilanciarsi, con una politica


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