La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII. Francesco Domenico Guerrazzi

La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII - Francesco Domenico Guerrazzi


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tenebra, manda la sua luce sul castello capuano. Le parti illuminate di questo edifizio sembrano anche più grandi pel contrasto delle ombre in cui le altre parti sono sepolte. Alcuni torrioni paiono non aver fondamento sulla terra, e starsi così sospesi per l'aria; altri mezzo rovinati; e presentano alla fantasia uno di quei castelli che i romanzieri descrivono nelle loro leggende: dove gli spiriti maligni si ragunano a celebrare il nefando sabbato e a inebbriarsi di sangue. La calda immaginazione dell'osservatore può vedere avvolgersi per quelle rovine lo spettro di Guglielmo il Malvagio condannato a visitare la casa da lui eretta, abitata da stirpe non sua; e può sentire il singulto dell'ira, o della coscienza, ch'ei manda nella disperazione dell'anima.

      Tale era lo edifizio che il giovane considerava. Poichè l'ebbe con lentissimi sguardi e più volte misurato, scosse la testa, e parlò: «L'opera della tirannide è grande quanto l'opera della generosità…. La paura ha dato il suo sublime, come lo ha dato la pompa…. il buono e il tristo produssero parimente le maraviglie del volgo, che sono la compassione della debolezza umana per coloro che han cuore.—Santa Maria! Che cosa egli è mai questo castello? Che i tesori che trovò Manfredi in Luceria? Che la potenza di Federigo Barbarossa, e di Federigo II? Essi non poterono conquistare la Italia: quegli fu arrestato da mura di creta e di paglia; questi disfatto da gente, dalla quale si allontanava per non vedere la morte.¹ E poi che sarebbe l'impero d'Italia, quello del mondo? Potresti essere il più grande di tutti i mortali, ma pur sempre mortale; il più forte tra gli uomini:—ma chi vanta nel braccio la forza del turbine? Il più sapiente dei figli della terra:—ma chi ha lo intelleto dei figli del cielo? Pure l'anima mia potrebbe questo sentimento che mi travaglia la vita obliare o almeno lenire, dove potessi posare la testa sul seno…. di cui? Non l'ho io nominata? Non sono i passi di uomo questi che si allontanano?—No… tutto è tranquillo. Fino tremare di nominarla! O capuano! io sarei contento delle tue mura; o soglio del mio Re, comunque angusto, mi giungeresti ben grato, dove io mi vi potessi sedere con quella che ho fatto donna dei miei pensieri? Io ho amato sempre il trono perchè mi sento nato per quello: ora poi questo desiderio è diventato furore, perchè in altro modo che sul trono non si può vivere con lei…. nè, se si potesse, il vorrei…. Ma io sono un oscuro…. nudrito per pietà in casa non mia, costretto a servire con mente da dominare…. non conosco padre nè madre…. e devo tremare di conoscerli, perchè forse il mio nascimento va macchiato con nota d'infamia.»

      ¹ Il Barbarossa nel 1175 fu costretto a levare l'assedio d'Alessandria detta della Paglia per la ragione esposta. L'esercito di Federigo fu disfatto nel 1248 dai Parmigiani, mentre egli sicuro del conquisto di Parma si allontanava dal campo per sollazzarsi alla caccia del falcone.—Vedremo in seguito questi fatti.

      E qui tacque: un pallore mortale gli si diffuse pel volto: stette immobile con intentissimi sguardi, e con la bocca mezza aperta, come il tormentato dalla sete; giù per le guancie gli trascorrevano grosse stille di sudore che gli scaturivano frequenti dalla fronte, quasi spremute dal cervello compresso dall'angustia. Dopo alcun poco il sangue tornò impetuoso per modo a infiammargli la faccia, che le vene inturgidite e i muscoli dilatati pareano doversi spezzare alla violenza del moto: allora tutto il suo corpo si agitò convulso, e si pose ambe le mani sul capo quasi per impedire che si rompesse. Stato tanto miserabile non poteva prolungarsi più oltre, ed egli cadde gemendo sopra un sedile di pietra.

      «Oh questo non può durare,» dopo lunga ora riprendeva in fievole accento «non può durare, nè durerà.—Poichè la morte è certa, proviamo morire con ardimento, e sveliamoci.—Con ardimento! Ma questo potrebbe fruttare l'onta del rifiuto; e mentre stimava morire da generoso, sarò sprezzato dall'orgoglio, e forse vilipeso come stolto. Santa Maria! Che vita è questa dove la pratica di una virtù partorisce il frutto del delitto, e la pratica del delitto la mercede della virtù? Chi è il sapiente che ne ammaestra a distinguere l'uno dall'altra? Chi quegli che ne insegna in che cosa consistano? Il delitto di questo secolo stimarono e stimeranno il delitto dei secoli futuri? Virtù che mi nuoce è sempre virtù? Devo praticarla a mio danno? Dove ha scritto la natura le sue leggi?—Nel cuore? Io sovrappongo la mano al cuore, ma egli palpita al sussulto delle passioni.—Che serve meditare su la ragione della necessità? Meglio vale subirla con le mani incrociate sul petto, e starci a vedere che cosa ne viene. Così farò.

      —Dunque sono io tanto sventurato? La mia memoria non può ricordare nulla che giovi a blandire con le illusioni un'anima lacerata da tante angoscie reali?—Oh! bello lusinga il regno delle immagini, ma il loro fascino è come quello del serpente; questo finì col peccato, quelle finiscono coll'inaridire la mente che a loro si abbandona.—Pure il giorno che il suo genitore assunse la corona de' Re, ella lasciava cadere ai miei piedi la grimpa che le cingeva la persona: io la raccolsi…. e meco trionfò nel torneo…. ed ora mi posa sul cuore, e sarà la compagna della mia vita, e mi coprirà la faccia nella fossa.—E il giorno del torneo? O sola luce dei miei anni passati! Oscuro donzello, ricoperto di maglia, coi colori della figlia di Manfredi, mi confusi tra i superbi Baroni e capitani famosi, ed osai giovinetto giostrare di lancia co' maestri dell'arte, con cavalieri incliti per mille prove, e vinsi. Rimaneva il prode Conte Giordano di Angalone: ci affrontammo; ei cadde rovesciato sopra la polvere. Egli ne dette la colpa alla cinghia della sella, e sarà, ma cadde.—Io mi nascosi, egli ebbe il premio della giostra, dacchè il vero vincitore non si presentava; nè io lo invidiai, chè mi parea avere più alto premio conseguito che il suo non era,—l'amore della figlia del Re.—E il giorno veniente? Oh! non dimenticherò mai il giorno dodicesimo di agosto. Io le guidai il bianco palafreno:—ella in salendo pose la sua nella mia mano…. e tremò…. ed io pure tremai, ed arrossii.—Ma ed ella arrossì? Io non osai sollevare gli sguardi. Oh! quella fu gioia, e…. forse fallace. Chi sa che il velo non cadesse per caso? Chi mi assicura che il suo tremore non venisse da pericolo di caduta? o piuttosto da sdegno del mio tanto ardimento? Il sangue svevo ribolle superbo: ma se orgoglio facesse lignaggio, io pure mi sentirei sangue di Federigo.—E quando ella inchinandosi dalla sua altezza m'interrogasse: chi sei?—Chi sono?—Uno ignoto a me stesso, e ad altrui; un respinto per la colpa materna dal seno dello stesso genitore, un monumento vivente del peccato, una onta a me, una vergogna ai miei. O chiunque voi siate che mi donaste una vita che non avrei accettata giammai, dove si potesse rifiutare di nascere, grandi devono essere stati i vostri peccati, perchè atroce è la pena che ne porto!»

      Così parlava il travagliato, alternando la vicenda del dolore e della gioia, allorchè la natura lo sovvenne con la stanchezza, e il bisogno del riposo lo costrinse a sedersi. Le sue labbra presero ad articolare le note di una mesta ballata, e la mente seguace dell'armonia si deliziò nei concenti divini, nati e custoditi sotto il cielo d'Italia.—All'anima confortata si affacciò quindi il suono delle imprese guerresche: egli lo cominciava leggero leggero: a mano a mano cresceva; finalmente si sollevò al punto, in che si ode quando il nemico si riversa sull'inimico. Allora trascorse nei giorni della gloria, sentì l'alito della fama, sorse, tolse la spada, e nobilmente avvolto nel mantello camminò nell'orgoglio della mente sollevata fino al pensiero dell'Onnipotente Distruggitore.

       Indice

      AMORE.

      Pargoletta ella era

       Tutta sorriso, tutta gioia: ai fiori

       Parea in mezzo volar nel più felice

       Sentiero della vita.—Ecco ad un tratto

       Di tanta gioia estinto il raggio, estinto

       Al primo assalto del dolor.

       FRANCESCA DA RIMINI, tragedia.

      Perchè una tomba prodigio di marmi peregrini e dell'arte copre le ceneri di tale, che non si conosce essere stato vivo, tranne pel monumento della sua morte?—Perchè forme celesti, dilicati contorni, leggerezza di leggiadrissimo corpo, vestono l'anima della femmina? Perchè ci dierono un cuore che balza a quelle sembianze, una fibra che si raccapriccia a questo bellissimo spettacolo della creazione? Nessuno animale ha potuto contribuire a formare il corpo della femmina. I colori dell'uccello di paradiso, della farfalla di Casimira, non possono paragonarsi ai divini che imporporano


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