La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII. Francesco Domenico Guerrazzi

La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII - Francesco Domenico Guerrazzi


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Ora poi, che il cielo ti è chiuso, ti conforto a disperarti e a morire.—Così favellando, proruppe in altissime risa, e disparve. Solino cadde tramortito per terra, e insanguinandosi la bocca e la fronte rimase oscenamente deturpato nel volto. Sorse il mattino, ma il raggio del sole non rallegrò la terra: il fumo si era diffuso per l'orizzonte e vi stava immobile come tenda. Il mostro però non si vedeva: solo si udiva il ruggito dei lioni, e il bramire degli orsi. In quel giorno d'ira e di vendetta non un uccello fu visto pel cielo, ma tutti paurosi si rimasero nel nido a tutelare sotto l'ale i figliuoletti loro: non una fiera percorse la foresta: chè il senso del terrore strinse più forte di quello della fame; i cani a testa bassi, a coda dimessa, vagavano incerti qua e là in traccia dei soliti abituri, e se quelli trovavano chiusi, mandavano tanto lamentosi ululati, che veruno uomo, per quanto crudele, gli ascoltava senza pietà. Rinnuovavano i cittadini le preghiere; ai loro Idoli le più care preziosità profferivano: e si trovarono di tali che per placarli le vene delle mani e dei piedi si segavano, e quel sangue scorrente presentavano in oblazione. Venuta la fine di quel terribile giorno, la nuvola nera cominciò a tuonare per modo che toglieva l'udire, l'atmosfera apparve tutta infiammata e offendeva il vedere, un fetore intensissimo tolse l'odorato; poi la terra mise vento rombando, e un terremoto scosse la città, sì che la più parte delle case ruinò, e meglio di centomila cittadini perirono. Il Mostro adesso apparve su la piazza di contro al palazzo di Solino. Il suo sguardo dapprima spento si accese, a proporzione che quel flagello della natura cresceva, e allora quando vide le sparse viscere dei tanti miseramente schiacciati, e l'orrore delle rovine, divenuto affatto di fuoco, mandò scintille, le quali appresesi di subito al palazzo di Solino suscitarono in un momento tale incendio che i legni e i ferri non solo, ma le pietre stesse infiammate si liquefacevano.

      ¹ Azzael angelo della morte presso i Maomettani. È inutile avvertire lo strano miscuglio di cose di questo racconto, il quale dimostra la poca notizia delle storie che in quel tempo si aveva.

      Il Mostro si precipitò tra le fiamme, e di lì a poco, rovinando tutte le pareti del palazzo, rimase in piede una sola stanza dove Solino steso sopra un letto si dibatteva disperatamente contro il Mostro, che appuntellategli le ginocchia sul petto con atroce compiacenza lo strangolava.» ¹

      ¹ Questa superstizione del Gran Diavolo si mantiene anche oggi in Sicilia. Vedi Inveges, Palermo Sacra. Tomo 2.

      A queste parole era giunta la novella di Matelda; le damigelle disposte in circolo stavano tutte intente al suo volto, mostrando per gli occhi smarriti e per la pallida faccia la paura che occupa va le anime loro, allorchè le porte della sala si schiusero fragorose; l'aria ventando con impeto spense ogni lume; un'alta voce si fece udire, e il mutare de' passi pesanti, e lo strisciare di vesti sul pavimento.

      Un súbito terrore percorse veloce le vene di tutte le damigelle, e l'una afferrando strettamente l'altra pel braccio o per la veste, sospinte dalla medesima paura si volsero al luogo donde usciva il romore, gittando altissimo grido.

      E qui, infastidito di avvolgermi in tanta bruttezza d'invidia, di vanità, e di errore, abbandono volenteroso il soggetto. Turpi o frivole sono ordinariamente le passioni di femmina, ma altri sia il Cam delle loro vergogne,¹ siccome altri l'adulatore. Vago di manifestare quello che occorre di bene nello spirito loro, ne lascio la sozzura all'ira, al disprezzo, od alla compassione degli uomini.

      ¹ Cham pater Chanaan cum vidisset verenda patris sui esse nudata, nuntiavit duobus fratribus suis foras. (Gen., c. 10.)

       Indice

      IL PRIMO BACIO.

      Il mattin lucido lei sospirosa,

       Lei sospirosa vede dal tacito

       Suo cocchio d'ebano la notte ombrosa;

       Di tutta l'anima divien signore

       Amor, se sola, se inerme trovala;

       Donzelle tenere, temete Amore.

       ARMINIO, tragedia.

      Che cosa è mai il tremito dilettoso che sorprende il corpo e la mente all'aspetto della bellezza?—Forse l'anima fu destinata a sentirsi commuovere per tutto quello che è bello? Forse il principio divino dell'uomo gode vagheggiare quaggiù tutto quello che sembra di Dio? Ma perchè dunque il pensiero non si esalta alla vista dei cieli? Perchè scorgiamo tranquilli il torrente della luce? Perchè se pietà di consorte o di amico non ci compunge, non mandiamo sospiro allo aspetto del pianeta della notte?—Che ha mai la terra da agguagliare alla grandezza dei cieli? Ahi! non l'anima si sublima alle forme della beltà: non il pensiero divino si esalta alla emanazione del Padre delle cose perfette; bensì il furore di turpe voluttà ci turba nel profondo, è l'idea di sozzo piacere quella che ci stringe il cuore, e ci rapisce la voce. Uomo, tu puoi essere solo convenientemente paragonato al fango dal quale nascesti! O amaro frutto della scienza del bene e del male, tu ci bai tolto perfino le illusioni che potessero essere magnanime, i palpiti del cuore!

      La gioia dello intelletto suscitata da un istante di esaltazione, dove non trovi cosa reale che la mantenga, poco dura. Colui che travaglia le anime immortali troppo profondamente conosce tutti i modi della pena per non lasciarle lungo tempo in una medesima angoscia; perocchè allora o questa angoscia diverrebbe natura per forza di prepotente abitudine, o, se tale da non potersi durare, la morte correrebbe veloce su le tracce di quella; onde il Tormentatore che allontana quanto più può la morte dalla sua vittima, conoscendo il travaglio consistere meno nella intensità che nella durata, si mostra sollecito a variarle il modo di supplizio, onde non si abitui o non soccomba. Arimane,¹ allorchè si avvisa perdere lo sventurato viandante, non lo aggrava di subito con tutta la forza della sua potenza, ma a quando a quando gli manda tra le frasche della foresta una luce, o suscita una voce di gente vicina, affinchè il suo cuore si apra alla speranza, che poi gli faccia più amaro lo sconforto della tenebra, e della quiete spaventosa che precede la tempesta. Stanco finalmente il mal Genio di questo giuoco spietato, appresta l'ultimo danno, e lo scherno più feroce.—L'abituro degli uomini dista pochi passi dal viandante; già il suo spirito si rallegra nel piacere del calore che renderà il moto alle sue membra irrigidite, e nel ristoro del cibo; ma tra lui e l'abituro è aperta una voragine…. egli dirizza il guardo alla luce, nè bada alla via…. la terra gli manca sotto i piedi…. precipita alzando urla disperate; alle quali fanno eco le risa di Arimane, che, sporgendo la testa dall'orlo del precipizio, gode vedere su quante rocce percotendo lascerà viscere e sangue, prima che giaccia lacerato nel fondo.

      ¹ Arimane genio del male presso i Persiani, siccome Oromaze il principio del bene.

      I fantasmi della gloria aveano abbandonato il giovane scudiero posto a guardia dei giardini reali: ad ora ad ora cupamente gemeva, ed esclamava: «O ambizione! o amore!»

      Al pronunziare che fece questa sentenza, un leggerissimo moto lo trasse a sollevare gli occhi da terra, e…. non sarebbe questa una illusione della sua mente di fuoco?… No…. una forma leggiadra più che fantasia può immaginare, e poesia descrivere, gli stava dinanzi. La sua persona era tutta avvolta in lungo velo nero chiamato grimpa, che a quei giorni le belle Siciliane adoperavano per cingersi collo e seno, e parte del corpo, facendo più lieta la bellezza col suo migliore ornamento,—il pudore. Mortale la dimostravano il ventilare delle vesti, che svelava tutti i cari contorni di quel corpo delicato; ma il passo leggero, che appena piegava le foglie calpestate, poneva il risguardante in forse, se più che alle terrene appartenesse alle spirituali sostanze.—Il fantastico poeta l'avrebbe detta il Genio della Malinconia, che scende tacitamente nella notte a mormorare in basse voci un lamento, per non isvegliare i figli della terra ora solo felici:—ora, perchè oppressi dal sonno fratello della morte.

      La vergine del sangue svevo, ignara da cui movesse quel sospiro, si volse al luogo donde era uscito per consolare l'afflitto;—perchè in qual cosa mai consisterebbe gentilezza del cuore, se il grido della miseria fosse invano ascoltato?

      «Santa Maria dello Spasimo!» diss'ella, entrando sotto la volta che i raggi della luna non rischiaravano; «i tuoi


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