Dallo Stelvio al mare. Massimo Bontempelli

Dallo Stelvio al mare - Massimo Bontempelli


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di granate e di shrapnells. Stanno freddandosi.

      Dall'ultimo al primo, mentre freddano, è una curiosa scala di colori in gradazione lentissima dal candido al vermiglio al rosso al paonazzo al violaceo al bruno. Shrapnells e granate di ogni calibro, pistole e fucili automatici, mitragliatrici, nascono in questo modo rapidissimamente e si compongono, fioriscono, sotto il lavoro preciso e continuo dei forni, dei torni, delle seghe, delle presse, delle trafile, delle pompe, dei trapani, delle fresatrici, delle limatrici. Se possiamo fermarci a esaminare partitamente qualcuna delle operazioni più sottili della lunga serie, la nostra maraviglia si rinnova di fronte alla finitezza di lavoro che l'ingegno umano ha saputo raggiungere per mezzo dell'automatismo apparentemente più bruto. Penso al tornio che incontro alla verga incandescente porge e spinge uno dopo l'altro, di fronte e di fianco, quattro cinque sei coltelli e scalpelli di taglio diverso, onde il pezzo n'esce complesso e rifinito come per il più paziente lavoro di una mano destra, vigilata continuamente da un pensiero attento e preciso.

      Un'altra ragione di maraviglia è osservare come questo lavoro di produzione quotidiana ed enorme non abbia nulla di febbrile. È come la nostra storia di questi giorni, di quest'anno. I posteri li chiameranno giorni di ansia e di febbre, e non sono tali, perchè il fervore degli uomini forti e delle azioni grandi è stranamente calmo e misurato ne' suoi atti esteriori.

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      Ma più maraviglioso ancora si è, che uscendo dal luogo ove abbiamo visto nascere i più formidabili strumenti di distruzione, ci accorgiamo di non aver mai avuto pur un momento sotto gli occhi l'immagine della distruzione e della morte. Neppure sporgendoci sopra le lunghe fosse ove si fa la prova delle mitragliatrici, ove si vedono vertiginosamente vuotarsi i caricatori crivellando le tavole del bersaglio, non abbiamo pensato agli uomini che saranno al luogo di quelle tavole.

      Ho detto già come l'impressione di questo luogo e di questo lavoro sia quello d'un mondo e d'una natura, compiuti nel loro organismo e nella continuità della loro creazione. Il mondo produce vite, e poi altre vite e altre vite ancora, e il contemplarne l'opera ci appaga, e solo nei momenti della tarda riflessione l'uomo si domanda lo scopo di quelle vite nel perpetuo, e solo per una specie d'ozio vano tenta di pensare il creato come una causa. Nello stesso modo, solo ritornati nella strada silenziosa, allontanati dal paese di fuoco e di ferro, ricordiamo com'esso abbia uno scopo, e preciso e formidabilmente immediato e vitale.

      Ma è un tardo atto di riflessione. Non è ancora un sentimento. La guerra è ancora lontana. Il viaggio nel paese delle armi non è ancora un appressamento alla guerra.

       Indice

       Aprica, 17 agosto.

      Come una linea tortuosa, interrotta ne' suoi continui frastagliamenti; ma grado grado, a procedere, si fa sempre più grossa e più rossa, sino alla fine. Tale è la nostra guerra, dallo Stelvio al mare: dall'alta Valtellina ove gli avversari si sorvegliano fermi e saldi, alla mischia grossa che incendia la regione dell'Isonzo. Per questo il viaggio dallo Stelvio a Monfalcone in margine alla linea del fuoco, sarà un inoltrarsi graduale, sempre più addentro, nella sensazione della guerra: e per questo anche l'interesse del lettore, leggendo le note che al viaggiatore sarà stato possibile cogliere, dovrà gradatamente e naturalmente farsi sempre più vivo.

      Ho detto che gli avversari, nella regione dello Stelvio, si guardano, fermi e saldi. Ciò va inteso con discrezione. Non azione definita, non complessità di movimenti, non vasti effetti raggiunti: ma stanno due nemici, uno in faccia all'altro, a sorvegliarsi e tenersi a freno. Fucilate, via, se ne tirano sempre: e se ne sono tirate anche qui fin dai primi giorni, e qualche cannonata anche, e s'è fatto qualche audace corpo a corpo. I due paesi avversi penetrano uno nell'altro strettamente per le frastagliature dell'artificioso confine: le cime e le depressioni continue su cui questo confine è tracciato, formano una bizzarra linea di posizioni d'offesa e di difesa. Una cima italiana guarda giù, in una valle austriaca; un costone nostro termina in una sella che la geografia politica assegna ai nemici. E così via. E tutta la linea del confine è marginata, di qua e di là, da due linee di avamposti, i nostri e i loro, e dagli uni e dagli altri partono continuamente pattuglie di sentinelle in ricognizione di avanscoperta; in più, i punti più importanti di quel frastaglio sono occupati o battuti da trinceramenti o da forti.

      Ecco dunque uomini, gruppi di uomini, uomini nemici, uomini armati, i quali ogni tanto si vedono gli uni gli altri; là in faccia su quel pendìo, giù ai piedi in quel fondo di valle, sovra il capo su quella balza che si sporge. Sono fucilate e cannonate quotidiane, utili a mantenere vivo il rispetto nel nemico e indispensabili anche a tenere in regolare equilibrio il nostro ardore.

      Dalla cresta della Forcola stanno silenziosi a vedere il duello i soldati svizzeri. Perchè al valico dello Stelvio, sotto il Dreisprachenspitz (o, come noi lo abbiamo ribattezzato, il Pizzo Garibaldi), passa il vertice della triplice frontiera italo-svizzera-austriaca.

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      Ma non c'è da temere che nella inazione il nostro ardore s'addormenti: al contrario, si esaspererebbe. Non può credere, chi non li ha sentiti parlare, quanto i soldati e gli ufficiali posti qui a far da colonna o da perno nella regione ove non si deve avanzare, soffrano di non potersi gettare a capofitto contro il maggior pericolo.

      Ognuno di essi legge i giornali e pensa alla Carnia e all'Isonzo con invincibile invidia, e ognuno d'essi (e sono tanti nella valle, che n'è tutta carica come un'arma pronta!) implora almeno come minimo di soddisfazione di far parte d'una pattuglia, di poter vedere, almeno una volta, l'austriaco. Quando lo vede, gli dà la caccia. Questa ci frutta ogni tanto anche qui, dove la guerra è ancora in attesa, qualche incerto di prigionieri nemici che i tranquilli paesi di montagna vedono passare con una gioia memore dei fasti valtellinesi del Risorgimento.

      Ma alcuni fatti d'arme raggiunsero anche qui una notevole importanza: quelli in cui abbiamo provato la solidità della nostra difesa in occasione di tentate irruzioni del nemico, e quelli con i quali una avanzata, materialmente brevissima, ci ha dato il possesso di cime che dominano valli verso il cuore del Trentino, rovesciando in qualche punto la situazione strategica iniziale.

      È dei primi quello del 9 agosto. L'iniziativa fu dei nemici, che avevano tentato di attaccare il gruppo di montagne ghiacciate Ortler-Cevedale. Insieme con l'Adamello, esse costituiscono le porte, porte ben ferrate dalla natura, di questo confine. Dall'altissima Val d'Adda si stacca verso oriente la Valfurva, percorsa dal Frodolfo, e determina una specie di saliente molto smussato del nostro territorio entro la regione nordoccidentale del Trentino. Tutta una corona di ghiacciai protegge ivi il confine, ghiacciai che si stringono intorno all'Ortler (alto oltre 3400 metri) e al Cevedale (oltre 3700 metri). Il gruppo conta ben sessanta ghiacciai, dei quali il più ampio è il ghiacciaio del Forno. Dal passo del Cevedale, più su, e dal ghiacciaio del Forno, più giù, gli austriaci tentarono dunque l'impeto contro le nostre difese. Salirono al primo da Val di Sulden, all'altro dalla valle del Noce. Già i nostri avevano respinto le pattuglie venute innanzi a riconoscere il passo. I nemici tornarono la notte, penetrarono per il colle di Vioz passando sulla neve congelata, calarono giù per il ghiacciaio del Forno, presero contatto coi nostri all'albergo del medesimo nome, e contrattaccati fuggirono. Il simile avveniva degli altri che contemporaneamente eran calati verso la capanna che conchiude a nord la vallata del Cedeh, affluente del Frodolfo.

      Un ufficiale austriaco che guidava il passaggio per Vioz, restò ucciso. Gli trovarono indosso una lettera dove annunziava, non si sa a chi, che egli si sarebbe spinto contro i nostri perchè gli italiani hanno paura, e altre siffatte affermazioni da comunicato ufficiale austriaco. Prima di esser colpito a morte deve aver avuto il tempo di ricredersi, chè vide i suoi uomini controinvestiti dagli italiani, in numero molto minore, e parecchi colpiti e gli altri messi in fuga, mentre dei nostri nessuno fu ucciso.

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