Dallo Stelvio al mare. Massimo Bontempelli

Dallo Stelvio al mare - Massimo Bontempelli


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scalpitare continuo di cavalli imbrigliati è un'inferiorità.

      Qui hanno un'affermazione sola: “mazzà i tudesch”: ammazzare i tedeschi. E la dicono con calma, come un bisogno e un proposito ben maturi e ben saldi nelle loro anime incrollabili. Un bisogno e un proposito quasi personali. Non hanno bisogno di riferirsi all'esercito quando parlano della guerra imminente. Si sentono tutt'una cosa con i soldati: parlano in prima persona. Nessuna popolazione come questa mi ha dato il senso dell'unità perfetta tra la patria e i suoi difensori.

      E per giungere a questo non hanno avuto bisogno di propaganda, di letture, di persuasione di sorta. C'erano arrivati subito, allo scoppio della guerra europea. A mezzo agosto alcuni contadini s'erano presentati al deputato del luogo annunciandogli il loro desiderio di costituire un corpo di volontari per la guerra all'Austria. Si erano già raccolti circa in settanta. A mezzo agosto 1914, notate; quando appena il nostro governo aveva dichiarata la neutralità, e noi si cominciava a disputare se dovesse essere assoluta o relativa, vigile o addormentata, risoluta o brachicalante, ecc. ecc. Quei valtellinesi ne avevano immediatamente intuìto il valore. Li guidava un vecchio di settant'anni, cui l'onorevole domandò... se si sentisse atto alle armi. Il vecchio rispose: “de mazzà un tudesch so' amò bon”: di ammazzare un tedesco sono ancora capace.

      E ne sono capaci davvero, tutti. Se in Valtellina non ci fossero i soldati, credo che i valtellinesi saprebbero difendere fino all'ultimo la loro terra, come difesero il passo dello Stelvio nel '48. Ma quanti ce ne sono, di soldati, per tutta la profonda retrovia di val d'Adda, fino all'Aprica! Ho avuto accoglienza ospitale tra gli ufficiali di un battaglione di alpini, in un paesino roccioso, in una stanza foderata d'abete; sotto le finestre la banda musicale degli alpini sonava fanfare gioiose, per la strada sfilavano le salmerie. Ho parlato con i soldati. Nello sguardo di questi la saldezza fredda dell'alpigiano s'accende a tratti di lampi d'entusiasmo, nei quali mi s'illumina con sicurezza profetica la vittoria del domani. Specialmente quando un ufficiale rivolge loro una parola densa di promesse e di affetto, un: “Ragazzi, ci siamo!” per esempio. Molti conoscono il fuoco: hanno fatto la campagna libica. Ci sono dei valtellinesi, dei bergamaschi delle alte valli, degli alpini del distretto di Aquila: una composizione sapiente, varia, solida: un'immagine concentrata della forza molteplice e una d'Italia. Parlano del fuoco e della morte con una semplicità che strappa le lacrime. Adorano gli ufficiali. A una cosa sola si mostrano restii: a essere impiegati nei servizi di rifornimento. Vorrebbero essere mandati avanti, tutti, subito.

      □ □ □

      Sono giunto di notte ad Aprica, dove dalla Valtellina si passa in Valcamonica: ivi ho veduto il primo duello di artiglieria.

       Indice

       Edolo, 18 agosto.

      Un inferno di fumo, di scoppi, di rombi; nugoli spessi spaccati da lame di fiamma e squarciati di grida; lacerti di terra ferita che balzano al cielo e si mescolano alle urla degli uomini; e soprattutto granate che esplodono; granate senza fine, che piovono e scoppiano un po' dappertutto, sul suolo, a mezz'aria, nel cielo: e cielo e terra ingombri di spasimi, di fragore infernale che assorda e acceca e sbigottisce i paesi e la campagna per molte e molte miglia all'intorno....

      Il buon lettore può darsi che immagini così, presso a poco, una battaglia di artiglieria.

      Io n'ero a pochi chilometri. L'impressione che me n'è rimasta non è affatto infernale. È di silenzio, di solennità, di calma.

      Una lunga ed erta salita su per una strada interminabile scavata miracolosamente dai soldati in una terra durissima, attraverso il pendio della più tortuosa e accidentata costa di monte che possa immaginarsi, mi porta a una specie di altopiano erboso, dal cui ciglione si domina un incrocio di vallate.

      In fondo l'orizzonte s'ingombra di alte montagne brune, macchiate di bianco nelle conche ove la neve non sgela: tra quei monti neri in faccia a noi si scavano e s'internano, più nere ancora, le valli che li dividono, e alle loro radici scherza il sole sugli ultimi prati; le cime si sfanno in nubi e pennelleggiano il cielo di grigio fosco. Tutto questo fasciato di brezze e di silenzio.

      — È molto bello.... —

      Poi, timidamente:

      — Scusi, dove è la guerra? —

      Il militare, con un sorriso:

      — Lo ha sentito il cannone? —

      Il borghese, stupefatto:

      — No.

      — Stia attento. —

      Tendo l'orecchio in mezzo al silenzio profondo che a me pare debba durare in quel luogo da secoli innumerevoli, tendo l'orecchio come se volessi cogliere la voce dell'erba che spunta o il ronzio di un insettino in fondo alla valle.

      — Sente? —

      Ho sentito. Un suono lungo, lento e grave: comincia come un ululo, e si fa rombo, e muore in una eco. È lungo, lento e grave, pieno di dignità: quando n'è finita l'eco nell'aria rimane l'eco nell'anima, che si trova d'un tratto come abbassata di tono, come premuta sotto un'onda di malinconia.

      — È questo? —

      E aspetto. E dopo un tempo, che mi sembra eterno, un altro rombo più intenso mi arriva di là, dall'oriente cumulato di monti e di nubi, e un altro ancora, più di lontano.

      □ □ □

      Ora che ho imparato a sentire, voglio imparare a vedere. Risalgo lentamente con lo sguardo da quei prati bassi dove il sole continua più vivaci i giuochi gialli sulle erbe, via per le coste che si imbrullano. Tento di fendere l'incavo che si apre nei monti, nello sfondo; giungo al breve spazio tra le due cime più alte e più forti. Lassù, le nuvole che sfioccavano dalle rocce si vanno rimescolando, diradando, levandosi in fumi chiari e sperdendosi nell'aria. Ora la cima di sinistra appare più libera e quasi nuda, di un turchino nerissimo: e in quella riesco a isolare un blocco più buio, ed ecco da quel blocco balzano fuori irresistibilmente uno sbuffo chiaro e una vampa gialla che se ne stacca e lancia via da sè, più avanti, una vampa più piccola, più rossa....

      — La granata che scoppia.... —

      E parecchi secondi più tardi m'arriva l'ululo che si fa rombo e muore in eco solennemente, e su tutta la scena tornano a distendersi lo stupore nostalgico e il silenzio infinito dei monti.

      □ □ □

      Rombi e vampe da una parte e dall'altra, a cinque o sei minuti di pausa: tale è un duello di artiglieria visto a dodici chilometri di distanza.

      Ai quali l'occhio si abitua in breve, e già s'accorge che quel gregge giallo, là in margine al costone più basso, è un attendamento; e da quello vedo chiaramente salire per l'erta la forma nera e rapida delle formiche umane: ma solo ora, mentre vengo ricordando gli aspetti e le forme che di quella scena semplice mi sono rimaste negli occhi, mi assale improvvisa la coscienza che quelle formiche creavano i rombi e le vampe e salivano ove ognuno di quei fenomeni gravi e solenni si traduce in morte e strazio di membra umane e in dolore e ardore e torture eroiche del corpo e dell'animo. Solo ora me n'avvedo; e quasi ne dubito, perchè non so ripensare a quel luogo, a quegli istanti, a quello spettacolo, senza riprovare la sensazione di solennità e di gravità triste che vinceva e assorbiva in me ogni altra sensazione, ogni riflessione, ogni coscienza.

      □ □ □

      Un'ora di quello spettacolo, spettacolo novissimo, tanto semplice che comincia col sembrare insignificante e finisce con l'essere strano, fa perdere il senso della realtà e il ricordo della vita.

      Me ne scuote un'ondata di gelo che mi ha invaso per tutte le membra. Chi si era accorto che il cielo era venuto abbuiandosi, che lo sforzo degli occhi aveva dovuto esasperarsi per continuare a distinguere le due vampe tra le due nubi ridiscese, che era cominciato a piovere?

      Ma non importa la pioggia. Moviamoci per sgombrare il corpo dal gelo e l'anima dallo stupore malinconico. Pure, ci sa male ritirarci


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