La vecchia casa. Neera
delle moderne ricercatezze, nessuna signora elegante avrebbe voluto abitarvi.
Era passata per tal modo chetamente di eredità in eredità a gente dignitosa ed oscura che non ne aveva alterato un solo aspetto, lasciando che il grosso fico spadroneggiasse nell'angolo del cortile, che l'erba crescesse fra il rado acciottolato, che una patina nera incrostasse i riccioloni barocchi della scala d'onore e del terrazzo sul quale tutte le piante possibili crescevano a primavera invadendo muri, finestre, embrici, con una prepotenza secolare che era diventata diritto. Le gronde ai tetti, foggiate in forma di draghi che vuotavano a torrentelli nella strada le pioggie raccolte, erano scomparse solamente in seguito al divieto formale del municipio, non senza aver tentato qualche resistenza. Sembrava che tutta la casa, tutto ciò che vi apparteneva, fosse tenuto insieme da un legame invisibile ma tenace che non voleva cedere alla invasione dei tempi nuovi. I proprietari stessi non erano riusciti ad appiccicarvi il loro nome; in tutta la parrocchia di Sant'Ambrogio si diceva la casa del marchese senz'altro. La casa del marchese da pochi anni appena era anche conosciuta col nome di casa dei Lamberti, quantunque i Lamberti non ne fossero proprietari, ma era questo un miracolo di Gentile Lamberti che solo era apparso degno di sostituire il suo nome venerato ad uno tradizionale che durava da secoli.
Già fin dall'esterno, in una rigonfiatura del muro che alterava la linea della facciata insistendo in quel carattere di vitalità così suggestivo e bizzarro, il disegno della casa si presentava con una assoluta indipendenza di criteri. La porta, collocata non nel mezzo della facciata ma da un lato di essa, era sorretta da pilastri piatti di granito che si riunivano alla sommità abbracciando un piccolo scudo dove assai confusamente si intravedevano le traccie di uno stemma. Entrando sotto il breve portico, che una pusterla di legno ingraticciata spartiva a metà, erano visibili ed assai bene conservati i dipinti del soffitto a cassettoni dove il pittore aveva anticipato le chiocciole e gli svolazzi che lo scultore doveva ripetere nelle balaustre della scala, diffondendo l'impressione speciale di morbidezza, di tepore, quasi di carezza e di abbraccio che è il più grande fascino del barocco puro.
Al di là della pusterla qualunque richiamo al movimento cittadino cessava. Si pensava involontariamente al numero infinito di conventi che stavano addossati un tempo in quelle contrade, al mistero di tante vite rinchiuse, scomparse per sempre, e guardando il piccolo portico dalle snelle colonnine che girava per due lati del cortile, la fuggevole visione delle suore oranti faceva passare un soffio di misticismo sulla calda impressione lasciata dalla architettura secentista. Ma era un misticismo dolce, sereno, che diventava quasi gaio quando la bella stagione vestiva di verde tutte le pareti e dal terrazzo la glicine, il caprifoglio, i gerani mandavano ondate di profumi nel cortile.
I due muri non occupati dal portico, essendo molto bassi, lasciavano scorgere una sfilata di orti, di piccoli giardini ingenui e primitivi dove la zappa entrava di rado e che contribuivano a conservare l'illusione della solitudine.
Costruita per una famiglia patrizia la casa aveva un solo appartamento che meritasse veramente questa denominazione: ad esso metteva capo l'ampia scala di stile barocco. Tuttavia alcune stanze del secondo piano erano state adattate per uso del signor Pompeo e dalla parte opposta, dove era la scaletta di servizio, gli ultimi proprietari avevano pure trovato modo di collocare un vecchio pensionato con sua sorella. Ma era tutto. Si trovava per tal guisa accresciuta l'intimità della casa dove poche persone entravano — sempre le stesse — dove da anni ed anni le finestre dei Lamberti si aprivano giocondamente lasciando passare i canti e le risa delle fanciulle, dove il vecchio pensionato, da un piccolo balcone, veniva a scaldare i suoi reumi al sole mentre la sorella appendeva la gabbia del passero solitario; dove il signor Pompeo, attraversando il portico, sbirciava tutte le mattine il cielo facendo pronostici per la giornata; dove Flavio aveva passate tante ore grigie sui propri cómpiti, tante ore azzurre nel salotto dei Lamberti.
Ogni primavera, innanzi che il fico mettesse le fronde, il portinaio saliva con una scala a mano a verificare lo stato dei rami; poi tendeva dei fili di ferro affinchè la glicine che cadeva abbondantissima dal terrazzo non andasse dispersa; egli la obbligava a vestire il muro nel posto lasciato libero dal fico. Una ventina di vasi schierati in bell'ordine e sempre in un dato modo dovevano completare l'assetto estivo del cortile. Il buon uomo vi seminava invariabilmente del basilico e delle violacciocche. Più tardi, quando il sollione di luglio e di agosto sferzava le pianticelle, egli le raccoglieva durante le ore calde sotto il portico, e il ripetersi metodico di tutte queste occupazioni, lo scrupolo di conservare ogni cosa nello stato e nella forma abituale, dava luogo a un ordine monastico in perfetta armonia coll'ambiente. Siccome poi il portinaio era solo, nessuna ciancia di donna, nessun vociare di bimbo rompevano l'alta quiete del cortile. Era così che l'erba cresceva in mezzo ai sassi immacolata, che il fico conservava i suoi frutti fino all'estrema maturanza, che i vasi dei fiori non erano mai spostati di un millimetro, che la patina del tempo si era distesa sui muri, sulle colonne, sui riccioloni della scala e del terrazzo creando effetti impensati di chiaroscuro, mentre dalla parete a tramontana, vestita al piede di una leggera muffa verdastra, salivano le macchie del salnitro con ramificazioni bizzarre, somiglianti ad antichi graffiti che i secoli avessero un po' corrosi.
Un largo sprazzo di cielo proteggeva questa perfetta solitudine. Oltre gli orti, oltre i giardini, appena quando gli alberi erano privi di foglie si poteva scorgere l'alto muro di un convento sul quale stava dipinta una meridiana.
Il lutto che era piombato terribile e repentino sulla casa felice ne palliava momentaneamente il giocondo aspetto. La persistenza della nebbia faceva pensare ad un velo che la morte stessa, passando, vi avesse distesa; cortile, portico, terrazzo, tutto affondava nel tenue mistero. Ma nella camera dove Gentile Lamberti era morto il dolore si era veramente rifugiato più muto, più profondo, non larva o simbolo, ma persona viva.
In quella camera così piena ancora di lui, delle sue abitudini, delle sue memorie, Anna, la maggiore figlia, veniva come ad un tempio — sentendo del tempio la grandezza e la soavità insieme — consolandosi in ciò che per molti è strazio insopportabile: la rievocazione. Ella non comprendeva affatto i conforti che le andavano susurrando, per la maggior parte appoggiati sull'azione del tempo che doveva guarire la sua ferita, che gliela farebbero quasi dimenticare. Non voleva dimenticare. Al contrario, se vi era pensiero dolce per lei in fondo al suo dolore era appunto la sicurezza del ricordo perenne, di un legame ininterrotto collo spirito di colui che ella sentiva ancora vibrare intensamente dentro di sè. Suo padre non era stato solamente l'autore de' suoi giorni, la persona che le tradizioni, l'abitudine, l'interesse insegnano a obbedire e ad amare. Carne della sua carne e sangue del suo sangue ella era sopratutto per una perfetta somiglianza di anime la continuazione del di lui pensiero, l'essenza rinnovata di quell'Io morale che una semplice accidentalità della materia non poteva distruggere. Era la di lui coscienza, era il di lui amore, era ciò che egli aveva voluto che fosse, ciò che doveva rimanere.
Nessuna debolezza si mesceva all'alto sentimento della perdita che aveva fatta, ma piuttosto un ardore concentrato, come se dai più oscuri segreti del suo essere germogliasse il seme del potente albero caduto. Veniva tutti i giorni, dacchè era morto, a passare lunghe ore nella camera di suo padre; le sembrava di vederlo e di parlargli ancora; le sembrava — oh! ma in modo strano — di sentire il tocco leggero e penetrante delle sue mani, quelle mani un po' magre, ma più che magre tenui, le quali scottavano sempre nel palmo. E la sua voce udiva, la sua voce che chiamava: Anna! Questo nome, breve e lucente come una lama snudata, la faceva trasalire ancora nella memoria di lui con un fremito di orgoglio.
Quante volte, seduti là, sul piccolo divano in mezzo alle due finestre, egli aveva parlato della nobiltà della natura umana sollevando l'animo della fanciulla alla comprensione dei sentimenti generosi, mostrandoli non a guisa di eccezioni ma come la sola norma di una vita degna. Era, del resto, il retaggio che i Lamberti si erano sempre trasmessi di generazione in generazione con una fedeltà che aveva conferito loro una specie di aristocrazia morale. Legati alla vita più calda e più palpitante del loro paese, il nome dei Lamberti si incontrava dovunque, sia nelle ansie tragiche della dominazione straniera preparatrice di indimenticabili eroismi, sia nei periodi di calma, quando all'azione violenta dei rivoltosi succedeva l'irradiamento sereno delle contemplazioni intellettuali, uno di loro si trovava sempre collegato alle imprese più simpatiche e più generose. L'aureola popolare (nel significato alto della parola), quell'aureola che viene decretata da migliaia di cuori commossi