Una notte fatale ovvero il racconto dell'esiliato. R. A. Porati

Una notte fatale ovvero il racconto dell'esiliato - R. A. Porati


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donne, pensava il deluso dandy, giurerei d'averne incontrata una onesta. Tanta fermezza non la so comprendere e sì che non tralasciai di blandire in mille modi quella vanità che le donne possedono in buona dose ed alla quale noi dobbiamo i nostri più bei trionfi.

      «Oh, ma perchè si fu respinti in un primo attacco si dovrebbe forse rinunciare avviliti all'impresa? Se ne tenti un secondo, un terzo se fa duopo; eppoi una buona volontà trova infiniti mezzi per conseguire il suo intento.

      «Quella biondina è troppo bella perch'io la possa incontrare per via, guardarla indifferente e passare avanti; quegli occhi celesti promettono un amore ardente! un amore di fuoco; quel corpo modellato su forme divine… oh, essa dev'esser mia; io solo debbo cogliere quel fiore ancor rorido di rugiada e dimenticato per avventura sul suo gracile stelo.

      «S'io lo rispettassi, un'altra mano s'avanzerebbe verso di lui, perchè adunque rifuggirò dal fare in oggi quello che altri farebbero domani?

      «Sarà d'uopo di costanza ma io l'avrò e giacchè sembra superiore ad ogni seduzione continuerò ad infingere intenzioni rette, la domanderò a suo padre in moglie, gli giurerò di farla felice e vorrei vedere che quel miserabile vecchione me la rifiutasse.

      «Marco, il mio fedele, indosserà i suoi abiti da prete e celebrerà il matrimonio…

      «Domani la vedrò ancora, mi troverà dappertutto, in tutti i suoi passi io sarò al di lei fianco, non le parlerò che d'una cosa sola, del mio amore e se la bella ostinata persisterà in un capriccioso rifiuto si ricordi ch'io non son uomo d'abbandonare i miei progetti qualunque sieno gli ostacoli che mi si parassero davanti.»

      E continuando l'acqua a cadere a diluvi, riuscendogli nojosa la povertà delle vie, entrò in un caffè cui dal giocondo schiamazzare comprendevasi come non dividesse punto la tristezza della natura.

       Indice

      Io vorrei che stendesser le nubi

       Sull'Italia un mestissimo velo;

       Perchè tanto sorriso di cielo

       Sulla terra del vile dolor!

       NICOLINI.

      Fu nel 1714 in forza dei trattati di Utrecht e di Rastadt che la nostra Lombardia da lunghi anni soggetta agli Spagnuoli passò sotto il dominio dell'Austria; e gl'italiani credendo mutar destino col mutar di padrone applaudivano al nuovo signore.

      Povera Italia, che dopo d'aver tracciati fasti luminosi sul libro della storia, dopo d'aver tenuto per lunga stagione in suo pugno i destini del mondo intero, or si vedeva avvinta in mille diverse catene, doveva ubbidire sommessa a mille diversi padroni.

      L'Austria voleva unire per sempre la nuova terra all'impero ed a questo scopo tentò ogni mezzo per legarsela con vincoli d'amore; incominciò quel gran lavoro di assimilazione che se gli riuscì in Ungheria ed in altri paesi gli doveva fallire completamente in Italia.

      Abolì balzelli immorali, frutti dell'ingordo dispotismo spagnuolo, che colpivano il povero nei bisogni più urgenti della vita; stese una mano protettrice alla snervata industria, alla languente agricoltura tentando risorgere la Lombardia a quell'importanza industriale ed agricola che sempre aveva goduta in Europa—e seminando benefici l'Austria ne raccoglieva frutti di riconoscenza.

      Ma non mancavano però coloro che comprendevano come la tigre pe' suoi feroci fini abbia facoltà di rendere la sua branca gentile quanto la mano d'una vergine, che comprendevano insomma come non si cercasse che di renderci leggiere le catena del più ignominioso servaggio.

      Erano coloro che dovevano tenere accesa la sacra fiamma di libertà in quegli anni di schiavitù.

      Fra questi nobili patrioti era il conte Sampieri.

      Amantissimo della patria, di carattere energico ed intraprendente, di bello ingegno si era fatto nel 1764 iniziatore d'un comitato segreto scopo del quale far pratiche con Carlo Emanuele III Duca di Piemonte, onde unire colla rivoluzione la Lombardia a quella provincia.

      Il sommo pensiero del conte Sampieri era l'unità d'Italia sotto lo scettro d'un re italiano; nobile aspirazione che doveva costare più tardi immensi sacrifici.

      Il comitato erasi guadagnato molti giovani milanesi ardenti sempre e volonterosi quando trattasi della patria.

      Carlo Emanuele nobilissimo principe, cui ne fu in ogni tempo feconda la stirpe di Savoja, non aspettava che un moto per muovere alla testa de' suoi piemontesi in ajuto ai fratelli lombardi, ma sventuratamente alla vigilia del gran giorno la congiura venne scoperta e soffocata nel sangue.

      Sampieri fuggì in Corsica; fu nel 1765.

      In quell'isola già da molti anni combattevasi per la libertà.

      Soggetta alla Repubblica di Genova la Corsica mal potendo sopportare il modo tirannico ond'era governata si sollevò.

      La vacillante Repubblica di Genova con improvvido consiglio domandò l'aiuto dell'Austria, indi della Francia, ma i Corsi stretti intorno a Pasquale Paoli, uomo di forte ed elevato carattere lottavano intrepidi contro gli stranieri invasori.

      Il conte Sampieri istrutto nelle discipline militari ed amico personale di Pasquale Paoli che seppe apprezzare l'esule patriota, occupò un posto importante nella sollevazione della Corsica; ma sconsideratamente Genova con turpe mercato cedette l'isola al governo di Francia e gl'insorti non poterono allora resistere alle preponderanti forze francesi.

      Pasquale Paoli esigliò in Inghilterra nel 1769 e Sampieri trovò una morte gloriosa sui campi di battaglia.

      Il conte milanese morendo abbandonava per sempre una moglie adorata e due figli ancor di giovane età; Renato ed Alberto.

      Renato il maggiore contava all'incirca diciott'anni.

      Di carattere dolce, d'indole mite egli era la delizia della madre sua; amante della pace e d'una vita tranquilla non poteva comprendere come suo padre avesse volontariamente corsi tanti pericoli—morendo vittima del suo coraggio.

      Guai se il destino provava con fortunosi avvenimenti quella debole natura; simile alla canna del deserto si sarebbe spezzata al primo vento che l'avvolgeva ne' suoi turbini.

      Adorava sua madre per un forte bisogno d'essere amato, divideva seco lei le sue gioje, versava sul di lei seno le sue lagrime—non volendo conoscere altri piaceri che quelli dello studio, altre affezioni che quelle pure, ineffabili della famiglia.

      Alberto invece era l'antitesi del fratello.

      D'animo virile, di natura energica, inquieta, attiva, possedeva tali qualità che ben regolate l'avrebbero fatto degno del nome di suo padre, ma che invece il mal'esempio di cattivi compagni le guastò.

      Trascurava gli studi per la ginnastica, la scherma ed il cavallo e crescendo di forze crescevano in lui i germi della corruzione.

      Troppo debole era il freno che poteva imporgli la madre perchè egli non lo rompesse e si facesse arbitro delle sue azioni.

      Passarono otto anni.

      La vedova contessa Sampieri affranta dalle infermità d'una costituzione viziosa rendeva santamente l'anima a Dio.

      Renato ne pianse la perdita ed allorquando il tempo ebbogli guarito il lutto del cuore, seguendo le proprie inclinazioni s'unì in matrimonio con una giovinetta di nobile casato milanese e stabilissi nella casa de' suoi parenti.

      Alberto invece divenuto coll'età superbo e malvagio chiese al fratello la parte spettantegli dell'asse paterno e ricco di vari milioni ritirossi in un palazzotto sul corso di Porta Tosa* ove circondato da servi corrotti menava una vita dissoluta e libertina rotto ad ogni eccesso, ad ogni turpe nefandità.

      * Ora Porta Vittoria.

      


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