Una notte fatale ovvero il racconto dell'esiliato. R. A. Porati

Una notte fatale ovvero il racconto dell'esiliato - R. A. Porati


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      Ahi, misero! t'han guasto e scolorito

       Lascivia, ambizion, ira ed orgoglio

       Che alla colpa ti fero il turpe invito!

       MONTI.

      Siamo a Porta Tosa precisamente nel palazzo del giovine conte Alberto

       Sampieri.

      È quasi mezzanotte.

      In un'ampia stanza che serve nel tempo istesso di anticamera e di sala d'arme stanno raccolti intorno ad un tavolino quattro uomini che con un mazzo di carte ed un fiasco di vino passano il loro tempo giuocando e bevendo allegramente.

      Vestono tutti la livrea e dalla sua uniformità si comprende come appartengano ad un medesimo padrone.

      Sono i quattro servi di casa Sampieri.

      Se si dovesse giudicarli dal volto non si potrebbe al certo dar di loro un giudizio lusinghiero; sebben giovani ancora portano scolpite in fronte le traccie del vizio, del disonore, del delitto.

      Il maggiore di essi, conta all'incirca trent'anni.

      È piccolo e robusto di corpo; una folta barba gli nasconde quasi tutto il volto, un volto da patibolo, due occhi neri pieni di malizia brillano sotto la fronte ampia, sede d'un ingegno svegliato al male e fecondo d'abominii.

      Egli è Marco, il servo di confidenza del conte Sampieri e siccome avvi una misteriosa simpatia che lega fra loro i buoni quanto gli uomini cattivi, così Marco ama svisceratamente il suo padrone e n'è da lui riamato.

      Superbo di tale affezione, come avviene quasi sempre nei servi prediletti, Marco vorrebbe sollevarsi un gradino dal livello degli altri suoi compagni di servizio ed arrogarsi diritti e privilegi di padrone, ciò che mal comportano questi; ma finiscono quasi sempre a chiudere un occhio visti gl'intimi accordi che esistono realmente fra Marco ed il conte.

      Seduto dicontro a Marco e suo compagno di giuoco è un giovinetto i cui stivali che gli arrivano sin oltre il ginocchio, il frustino che costantemente gira fra le dita ed il bonetto ad ala tesa che di tempo in tempo si calca in testa, lo fanno il vero tipo del cocchiere.

      Franz è inglese, e conoscendo mediocremente l'italiano, parla poco, sebbene di carattere allegro e sans souci.

      Professa una specie di culto pei cavalli, è felice allorquando impalato sul ricco palafreno guida per le spaziose vie di Milano i suoi puledri puro sangue, ed è ancora più lieto quando solo nella scuderia può abbandonarsi con loro nell'idioma patrio in mille cordiali tenerezze.

      Sono l'unico oggetto che gli rammentino la patria, e li ama come s'ama la patria.

      Del resto, d'indole fredda come quasi tutti i suoi compaesani, Franz ha un'anima incapace al bene come pure al male; è una di quelle creature la cui vita è una landa sterile d'ogni utile germoglio, ma che non è per anco sbattuta da turbinose tempeste.

      Colla massima indifferenza canticchiando l'usato ritornello inglese, egli avrebbe condotto il suo padrone tanto ad una semplice passeggiata lungo il corso, quanto al ratto d'una vergine, tanto in chiesa che al lupanare; sordo ad ogni voce di coscienza, egli fa il suo mestiere; riprovevole apatia che pur troppo si riscontra sovente nel cuore dell'uomo.

      Gli altri due, Tonio e Piero, giovani poco più che ventenni e capaci d'ogni vilissima azione, trovano alloggio e nutrimento presso il conte Sampieri, servendolo in ogni suo delittuoso capriccio.

      —Quà i bicchieri, vuotiamone un altro gotto, indi alla rivincita, disse Marco afferrando l'ampio fiasco che s'ergeva maestoso in mezzo alla tavola; animo, Franz, son due partite di seguito che perdiamo stassera; e che! ci lasceremo noi forse soperchiare da due sbarbatelli che mi farei ballare in sulle dita come il saltimbanco fa ballare le marionette? Franz, la nostra fortuna è in fondo a questo fiasco; suvvia adunque, peschiamola colle labbra.

      E portatosi il colmo bicchiere alla bocca, lo vuotò d'un fiato.

      L'esempio fu seguito da tutti.

      —Ah yes! altro bicchiere, gridò l'inglese facendo scoppiettare il suo frustino, altro ancora, eppoi vincere.

      —Vèh, vèh, l'inglese s'infiamma! osservò Piero con un po' d'ironia.

      —To', è vero, aggiunse Tonio.

      —Yes! e perchè non m'infiammare? Non avere forse puledro inglese più nobile sangue che non italiano? Non valere cavallo inglese tre volte cavallo italiano?

      —Guarda Franz, disse Marco ridendo, che te la lascio passare perchè hai avuta la prudenza di limitare il confronto ai soli cavalli delle due razze, ma se mi facevi una questione d'uomini, t'avrei provato che avevi torto.

      —Ah, io non conoscere che vostri cavalli, uomini non ancora.

      —Sta sempre a te se vuoi farne la conoscenza, notò Piero con malizia.

      —Ed io la fare molto volontieri, anche subito; e Franz balzava in piedi scoppiettando bruscamente il suo frustino.

      Piero, giovinetto molto ardito, d'un salto fu davanti all'inglese e si preparava a rispondere alla sfida, se non che la voce amorevole di Marco tuonò:

      —Ma sì, fatemi delle scene adesso; diavolo, che non si sappia reggere ad uno scherzo? Giù, Franz, al tuo posto; io non voglio andar a dormire col peso di due partite in sulle spalle; qua il mazzo adunque e giuochiamo.

      —È vero, brontolò l'inglese tornandosi a sedere, non perdiamo tempo inutilmente.

      —Già, perchè a momenti tornerà il padrone, aggiunse Tonio.

      —Oh, per questo, disse Marco, possiamo star certi che il padrone non lo vedremo tanto presto. Oggi è sabato, ed in questo giorno le sartine sogliono guadagnarsi di notte le ore di riposo dell'indomani, e fra il padrone e le sartine corrono adesso certi rapporti…

      —Ah sì?…

      —Tien dietro forse ad una di loro?

      —E che bella tosa, aggiunse Marco.

      —Ecco un'avventura che il padrone incomincierà, e che noi come al solito dovremo terminare.

      —Sicuro, lui fiuta la preda, a noi acchiapparla e mettergliela nel carniere.

      —Diventate conti e milionari, eppoi farete lo stesso.

      —Bravo Marco, hai ragione.

      —Scommetto che tutto finire come altre volte con un viaggio a Magenta, osservò Franz; miei cavalli oramai sapere a memoria la strada.

      —Tanto meglio, la faranno più in fretta.

      A por fine a questa enigmatica conversazione si fece sentire il passo d'un uomo salire lentamente lo scalone. Tutti tesero attenti l'orecchio.

      —È lui, esclamarono in coro i quattro servi, e balzarono in piedi.

      —Va adagio, brutto segno, congetturò Marco accendendo un lume.

      Infatti poco dopo entrò il conte Sampieri e girando attorno uno sguardo bieco senza neppur curarsi degli ossequiosi inchini dei suoi servi s'internò negli appartamenti.

      Marco lo seguì.

      Arrivato il conte nel suo salotto si gettò senza profferire parola sur una sedia ed appoggiati i gomiti alle ginocchia si nascose il volto nelle mani.

      Marco si fermò rispettosamente davanti al conte aspettando i suoi ordini.

      Passò qualche minuto, alla fine Marco vedendo che il padrone non sembrava accorgersi di lui, non osando parlare pel primo sapendo quanto veemente ed impetuoso egli fosse, si pose a passeggiare per la camera movendo or questo or quell'altro mobile, fingendo porli in assetto, ma in sostanza al puro scopo di far un po' di rumore.

      Infatti Sampieri alzò la fronte; vi si scorgeva impresse le traccie d'una lotta crudele combattuta internamente.

      —Che fai Marco, gridò dispettoso,


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