Il Cavaliere dello Spirito Santo: Storia d'una giornata. Guido da Verona

Il Cavaliere dello Spirito Santo: Storia d'una giornata - Guido da Verona


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il suo color locale.

      Proposi ad Aristofane che andassimo a cenare in una leggiadra sciampagneria, là dove rosseggia l'orchestra boema e le tersicori ospitali siedono alla vostra tavola per pesare con tutta la lor sete, con tutta la loro voracità sul conto elegante che poi vi porge un impassibile maggiordomo.

      — Delizioso amico, — disse Aristofane, — accetto volentieri tutto quello che vi piacerà d'offrirmi e tutti gli spassi che vorrete proporre per lo svago di questa notte che rubo a Morfeo. Domattina di buon'ora m'imbarco per la Grecia e in forza d'una vecchia usanza preferisco non coricarmi affatto che interrompere un sonno ben avviato verso il mattino.

      — Che mai? lascerete così presto Marsiglia, quand'io mi ripromettevo di godere lungamente la buona sorte ch'ebbi d'incontrarvi?

      — Benchè immortale, nulla mi scampa dalle traversìe della fierissima vita! Gli Dei non mi consentono più lunga dimora in questa lieta Francia che ha risolta con tanta grazia la seccatura di dover vivere! Anch'io debbo tornarmene a quel mio paese classico, dove ormai cápita su per giù tutto quello che del vostro dicevate, con l'aggravante che voialtri avete il buon senso d'andare lenti ma di sapere che siete lumache, mentre noi, sin dal tempo di Salamina e delle Termopili, chiamiamo epopea una rissa fra due villaggi, scriviamo dieci poemi per eternare la storia d'una burlesca infedeltà, e creiamo un Olimpo immortale con qualche vinattiere ubbriaco nonchè un paio di nude veneri da lupanare!... Quando Platone venne fuori con la panzana dell'anima, nessuno si aspettava che l'idea facesse tanta strada; quando si condannò alla cicuta quello scostumato blaterone di Socrate, nessuno s'immaginava che la nostra Atene, piccola e pettegola città di provincia, ne avesse a patire tutta l'infamia che ne patì; Anacreonte, nel creare il suo repertorio alla Fragson, manco dubitava d'essere ancora in voga verso i tempi vostri; Saffo, nel fare come la marchesa di B....... in letto e come la Comtesse de Noailles al tavolino, sperava per un delitto e per l'altro un poco più di discrezione storica; le trecento guardie civiche massacrate alle Termopili meritavano, è ben vero, tutte le punizioni più feroci, tranne quella d'essere cantate in rima undecima dal vostro bardo Felice Cavallotti, e il borgomastro Pericle non si sognava mai che la sua mantenuta gli rimarrebbe sul dosso per tutta l'immortalità... Vi annoio forse?

      — Tutt'altro, caro amico! Sono anzi del vostro parere in un modo che oltrepassa ogni dire.

      — Allora non vi farò mistero di niente... Io stesso, io stesso, quando scrivevo, per esempio, quelle due piccole riviste che si chiaman le Rane e le Nuvole, certo non spingevo la mia più vanagloriosa fede oltre la speranza che mi tenessero il cartello per un paio di stagioni su gli anfiteatri d'Atene. Vi potrei dire la stessa cosa di Sofocle, che si dava al genere serio, come degli altri, a voi noti quanto a me, che racimolavano alla meglio da tutto il teatro ellenico e forestiero quel guazzabuglio di cose che basta per trarne fuori un dramma, una commedia, un «vaudeville», una «pochade», un «lever-de-rideau» e così via. L'immortalità ci è venuta addosso come l'acqua a ciel sereno, e vi giuro per la barba di Giove che se oggi mi provassi con la stessa penna a scrivere qualcosa di duraturo, certo non vi riuscirei!

      Volli adulare la sua bizzarra modestia.

      — No, caro amico, — m'interruppe, — non insistete! Ve lo assicura Aristofane, che se n'intende! Le cose immortali sono quegli uovi di gallina che per avventura vengono depositati su la china dell'immortalità: rotolano giù con un andare sempre più veloce, e non trovano il sasso che li scocci. Ma io vi assicuro che nell'Atene Palladia vivevano per lo meno dieci uomini di vero genio, che nessuno allora nè dopo immortalò; mentre ai tempi nostri quel buon Sofocle era l'autore delle madri nobili ed Euripide spassava tutt'al più i borghesi arricchiti e qualche isterica vaporosa «bas-bleu». Io me la son cavata un poco meglio in grazia d'averne dette di cotte e di crude, senza peli su la lingua e con un certo brio, sul conto di quelli che andavano per la maggiore; — ma scrivevo un greco che ai tempi nostri era tenuto per mezzo dialetto e i critici serii non degnavano parlare delle mie commedie. Io me n'infischiavo altamente, visto che il mio scopo era la cassetta, e gl'impresarii, con le riviste d'Aristofane facevano quattrini, mentre col teatro classico d'allora gli anfiteatri andavano diserti più che oggi, nell'Atene di Francia, la ben affrescata sala dell'Odéon! Perchè, vedete, l'arte, come la religione, come la moda, come il codice, come le usanze, come tutto insomma, non ha ragione d'essere fuori dal suo tempo, ed è infinitamente bestiale chiamar oggi capolavoro la commedia o la poesia d'un greco, quando non potete più collocarla se non in mezzo ad un mondo artificiale e non avete più se non i vostri pregiudizî storici per estimarne in modo grottesco le bellezze apparenti. L'arte è un'essenza viva che finisce con il suo tempo, e voi, quando mettete le mani fra cose di migliaia d'anni fa, rimovete solo dei cadaveri o per lo meno delle mummie assai ben conservate.

      — Saprete nondimeno, — gli osservai, — che c'è nell'uomo il gusto dell'esumazione.

      — Senza dubbio, e v'è un altro vizio nell'uomo più condannevole ancora: quello di non voler ammettere a nessun patto che lui stesso e tutte le sue cose debbano essere transitorie. Perciò va in cerca dell'assoluto, nell'arte come nella metafisica, e piglia certi gamberi che chiamerò, per dirla con gli ottimi berlinesi, gamberi colossali! — Ma è lontana, mi sembra, la vostra sciampagneria!

      — Nient'affatto; ci siamo passati dinanzi tre o quattro volte nel passeggiare, ma ho preferito non avvedermene perchè la vostra conversazione mi distrae.

      «Le chevalier Aristophane» mi riprese il braccio che m'aveva abbandonato, e per la quarta volta ebbe la cortesia di trovarmi simpatico.

      — Dunque, a parer vostro, — feci, — i soli buoni giudici dell'opera d'arte sono i contemporanei.

      — I contemporanei no, perchè tutti i contemporanei, di tutte l'epoche e di tutti i luoghi della terra, sono un branco di assolute bestie; buoni giudici sono quelle minoranze d'intelletti geniali che vivono nello stesso tempo dei creatori d'opere d'arte o in epoche appena successive; ma non sono quasi mai costoro quelli che riescono a far prevalere la lor opinione, perchè nel mondo, checchè si dica, prevale sempre l'opinione delle maggioranze, ossia dei mediocri. E forse, al di sopra di questi giudici eletti, v'è per l'opera d'arte la consacrazione della sensibilità popolare, la quale non comprende ma sente. Questa sensibilità è passeggera e delebile come la folla passionale che la genera, ed a vero dire quando svanisce l'anima sua, svanisce la bellezza intrinseca dell'opera d'arte. Il resto è un'eco; il resto sono quelle piante fiorite, quelle vivande sontuose che gli Egizî mettevan negl'ipogei per profumare e per dar da mangiare ai morti. Sicuro... e se le pappavano i sacerdoti!

      — Caro Cavaliere, non posso dirvi altro che una cosa: le vostre parole mi sembrano pronunziate in modo chiaro da una persona oscura che ábiti entro di me. Vi ringrazio del buon ammaestramento, il quale m'insegnerà d'oggi in avanti a guardare con occhio più limpido sui valori delle cose.

      — E sopratutto a riderne, amico mio!... perchè il valore delle cose non è che un immenso riso contenuto, un'immensa ironia repressa, tanto più grande quanto più il valore è grande. I valori?... oh, che fiabe! L'uomo ha sempre lasciato passare senza porvi mente le cose più belle che gli furon dette; ma invece, anche per la bellezza come per la ragione, ha costruito un sistema metrico decimale, con che si diverte a far somme, sottrazioni, radici cubiche, logaritmi, e si sollazza quanto mai vedendo che queste operazioni riescono, cioè che i risultati sono immutabilmente uguali... Avrei bisogno, se non vi disturba, d'entrare un momento in questo piccolo chiosco.

      L'attesi. E passavano tre vispe Marsigliesi dall'accento e dal passo di tamburine, le quali parlavano coi loro tre amici di belle cose vedute al Casino de la Plage. Un odore aspro di pescheria, di conchiglieria marina, feriva terribilmente l'aria dalle prossime botteghe di pescivendoli chiuse; un dragone, quasi nuotante nelle due fisarmoniche de' suoi stivali, trascinava la sciabola sferragliante, che tosto o tardi vedrà il sangue degli Usseri della Morte; intanto angustiava una grossa baldracca, la quale non voleva cedere sul prezzo.

      — Ebbene, Cavaliere, alla buon'ora!... Non mi avete ancor detto cosa vi richiama sì presto in Grecia.

      — Bisognerebbe vi confidassi apertamente il mestiere che faccio in questo ventesimo secolo cristiano, ed avrei un certo ritegno a dirvelo se non mi foste tanto simpatico... Ecco qui: siccome v'è su la terra una cosa che


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