Il Cavaliere dello Spirito Santo: Storia d'una giornata. Guido da Verona
Cavaliere!
— Dunque se dessi oggi commedie sotto il mio nome certo mi fischierebbero, poichè l'immortalità, per sua propria natura, è cosa che appartiene solamente ai morti. Sicchè scrivo per gli altri, mi faccio ben pagare, ma non firmo. Voi saprete forse che a Parigi, ed anche altrove, quasi tutti fanno così. Ma io lavoro per Parigi. Ho una mezza dozzina d'autori molto in voga i quali hanno la bontà di servirsi alla mia ditta. Vado a Parigi regolarmente una volta ogni sei mesi, faccio il giro della clientela e sento cosa desiderano. De Flers et Caillavet, poniamo, vogliono una «pochade»... («il Re», vi avverto, l'ho scritto io;) ma tralasciamo i nomi ch'è meglio! Dunque X, poniamo, vuole una rivista per l'Alhambra, Y un'altra per la Cigale, Z una «revuette» per il Théâtre Michel, e così via... Si chiacchiera un poco insieme, ci si accorda sul genere, sui denari che posso far spendere per la messa in scena, sul prezzo che mi si pagherà, e quand'ho la cartella piena di commissioni prendo il piroscafo a Marsiglia e faccio per così dire vela verso il Pireo. Laggiù, poco fuori d'Atene, ho quattro palmi di terra, una bella casetta di campagna, un giardino rustico, una vigna che matura sotto il clima dolce, ho qualcos'altro che non vi dico... e là tranquillamente lavoro. Vi avverto, caso mai v'occorresse, che scrivo anche drammi, tragedie, commedie sentimentali e borghesi.
— Ah, per bacco! datemi il vostro indirizzo, caro Cavaliere, perchè non si sa mai!
— Indirizzate pure ad Atene dove tengo un «pied-à-terre»; il portinaio mi manda la corrispondenza in campagna. Per voi sono disposto a prezzi di favore, data la grande simpatia che m'ispirate.
E mi riprese il braccio.
— Non sono alieno, — dissi, dopo averci fatto su un pensiero, — non sono alieno dal tentare il teatro a mia volta, oggi sopratutto che non v'è persona ben educata la quale non si creda in obbligo di far qualcosa per le scene. Conosco perfino un ex-analfabeta il quale vi si esercita, sicchè mi potrei forse concedere questo lusso anch'io, dal momento che con la roba scritta son, oserei dire, in una certa familiarità...
— Non avrete che comandare per trovarmi sempre ai vostri ordini. Vediamo un po', cosa piace a casa vostra?
— Ah... tutto! piace tutto! Purchè ci sia pensiero, molto pensiero, un'esagerazione di pensiero... Negli altri paesi il teatro è teatro, da noi è pensiero. Infatti «la Presidentessa» ebbe un esito enorme.
— Non faccio per vantarmi, caro amico, ma anche «la Presidentessa» è roba mia!
— Felicitazioni! e vi prego di crederle sincere, perchè io considero «la Presidentessa» come un esponente necessario del teatro moderno.
— Oh, questi son nonnulla che fabbrico per Parigi. Ne ho venduti a bizzeffe. Proseguite, vi prego, sul teatro italiano.
— Ebbene, vi ho già risposto: in Italia si traversa un'epoca di pensiero, il teatro è riproduzione della vita, quindi le platee sono addirittura sitibonde di pensiero... Figuratevi, per darvi un esempio, che da noi si rappresenta Ibsen, specchio di semplicità, come si metterebbero in scena gli oracoli della Sibilla cumana! È delizioso... e poi si rabbrividisce! Dunque, se ci possiamo intendere sul prezzo, io v'affido subito la commissione: vi prego solo di non seminarvi un ingegno che sia di troppo superiore alle mie forze, altrimenti ognuno potrebbe comprendere che non è cosa mia.
— Sentite, il prezzo per voi sarà questo: un terzo dei vostri diritti d'autore. Vi conviene?
— A meraviglia. Dunque mi fido a voi; scrivetemi quel che vi pare e piace, con l'avvertenza che amerei fare qualcosa di nuovo. Mandatemi, per esempio, un... cinquecento grammi di roba scritta, io vedrò poi secondo il momento se mi convenga di chiamarla dramma, tragedia, commedia, farsa...
— E perchè non rivista? Da voi, ch'io sappia, se ne fanno meno che altrove: sopratutto non si fa il mio tipo «articolo di Parigi». E con quel tanto d'aristofanesco che vi potrei cacciar dentro io, si rischia d'avere un bel successo.
— Buona l'idea! mi piace! Vada per la rivista, ma per l'amor del cielo trovate il mezzo di riattaccarla in un modo o nell'altro alla inevitabile tradizione... Che so io? per esempio alla tradizione della nostra Commedia dell'Arte, perchè in Italia, come vi ho detto, senza la tradizione, è tempo perso, non si conclude nulla.
— E siamo intesi! adesso lasciate fare a me. Caso mai non vi piacesse, me la rimandate, io la smercio altrove e per voi ne scrivo un'altra. Fra persone di mondo, il mezzo per intendersi c'è sempre! Solo abbiate la cortesia di ripetermi bene il vostro nome, perchè nel leggere il biglietto da visita ho avuta quasi la reminiscenza d'un casato che non mi tornasse nuovo.
Poi ebbe un lampo:
— Ma voi, — disse, — fate proprio il romanziere, non è vero?
— Sì.
— E scrivete anche romanzi?
— Sì.
— Ossia delle storie per lo più d'amore, che posson anche trattare di qualsiasi altro argomento, purchè si chiamino romanzi?
— Sì.
— È quello che volevo dire!... Io vi conosco, io vi ho letto, io vi trovo molto molto simpatico!
— Toh!...
— E dico: molto!
— Mi pare impossibile che abbiate letto i miei romanzi condannati all'ostracismo da tutta la critica più erudita e meglio pensante!
— Eppure così è! Uno almeno l'ho letto; ora vi spiego. Non conoscete voi per caso un certo signor... un certo signor...
Sebbene la strada fosse per intorno deserta e non si vedesse in qua dai cento metri che la goffa ombra d'una guardia municipale, Aristofane s'avvolse tuttavia di misteriosa cautela e mi soffiò quel nome nell'orecchio, a voce sì piana che quasi non l'udii.
Rispetto quindi gli scrupoli dell'ateniese.
— Questo amabile vostro poeta, — illustrò l'immortale, — ha scritto e scrive molte bellissime tragedie greche. Lo conoscete voi?
— Certamente lo conosco, mio caro cavaliere!
— Bene, tanto per illuminarvi, sappiate che tutte le sue tragedie le ho scritte io!
— Oh, guarda che bel caso!
— Proprio; ma statemi a sentire. Qualche tempo fa, mi arriva un suo telegramma: «Urge dramma greco terribile poco prezzo entro venti giorni.» Per la barba di Saturno! avevo proprio su le spalle tutta la nuova stagione parigina, e rispondo: «Impossibile. Tempo insufficiente. Tragedie greche esaurite. Complimenti.»
Il giorno dopo ricevo altro telegramma: «Provvedete indefettibilmente ( — questo avverbio lo avrà pagato come due parole), ovvero perdete cliente.»
Daimon! daimon! in commercio non si scherza! Mi misi le mani tra i capelli e telegrafai «Avretela. Scrissi al mio libraio d'Atene che mi mandasse tutta la più recente produzione libraria dei cinque continenti, in special modo quella dove si parlasse d'adulterio sotto tutte le forme più peregrine, e di delitto in ogni maniera più efferata, ossia quegl'ingredienti che sono ancor oggi, come al tempo degli Atridi, lo specifico infallibile dell'arte.
Dopo aver scartati cinque o sei libercoli per signorine, cinque o sei Tempietti di Venere per Aspasie morfinomani, la mano mi cadde sul vostro romanzo, che m'impensierì per il suo titolo. Pensai: — Un romanzo che si chiama «La vita comincia domani» deve trattar di cose decrepite come la terra! Mi misi a sfogliarlo... e, per Ercole, ero a cavallo! Ecco la tragedia greca bell'e fatta, e fatta in modo che, con tre o quattro tagli della mia forbice classica, una spolveratura di quelle sapienti spezierie che sono il mio segreto di fabbrica, la tragedia riesca magari a cavarsela meglio che le altre. Detto fatto, in quindici giorni la tragedia era pronta e navigava su Francia. Egli fu assai lieto, mi pagò profumatamente, accompagnando il vaglia con una lunga e bella sua lettera, nella quale mi felicitava d'aver improvvisato con sì grande prestezza una irta e sonora tragedia greco-moderna, che andrebbe ad illustrarsi del suo nome verso i teatri di due popoli. E il poverello non sapeva, com'io non seppi fino ad oggi, di dovere a voi,