Casta diva. Gerolamo 1854-1910 Rovetta
Prendere anche il Teo, con noi? Diventi matto?
— Perchè?
— Un cane? In viaggio? Figurati che seccatura!
— Durante tutto il viaggio lo terrò con me. Lei non ci pensi; non se ne accorgerà neppure!
Teo, che per quanto inglese puro sangue, capisce benissimo l'italiano di Prospero, gli si avvicina, rizzandosi, tenendosi appoggiato con le grosse zampe alla gamba del suo protettore e leccandogli la mano.
— In viaggio, sta bene... — continua il Parvis. — Ma poi lassù, all'Abetone, all'albergo? Con tanta gente, con tanti forestieri?... No, no, è impossibile! Diventi matto, ti ripeto!
— Anche all'albergo, starà sempre con me. Dormirà con me. Gli darò io da mangiare, lo condurrò io a passeggiare. Lei non ci pensi neppure!
Trattandosi di intercedere per Matteo, per l'amico fedele che sa dire, come lui, tante cose senza parlare, il vecchio Prospero diventa persino loquace.
Ma l'onorevole è insofferente di contraddizioni. Non vuol saperne di cani in viaggio, all'albergo: e siccome l'altro insiste, egli perde la pazienza, si arrabbia, alza la voce, e Prospero, subito, allunga il broncio.
— Allora, mi dirà lei, dove e a chi lo dovrò lasciare! Lo avverto, però, che in un'altra casa non ci sta, certo, nemmeno dipinto!... E poi, quando non vedrà più nè me, nè lei, creperà, magari, anche di fame!
Dopo questo aut aut, e quasi affermando la gravità del problema, Teo torna a fissare il padrone, tenendo la coda bassa e dimenandola lentamente, come aspettando che venga decisa la sua sorte.
— Si potrebbe lasciarlo alla portinaia!
Prospero non si degna nemmeno di rispondere, di voltarsi. Continua a chiudere bauli e valigie.
— Oh Dio! — pensa Parvis, sbuffando. — Ci siamo! — Infatti, quando Prospero si imbroncia ce n'è per un bel pezzo... — Perchè poi, domando io, non si potrebbe lasciarlo alla portinaia?
— Perchè dalla portinaia non ci sta.
Teo dimena la coda più forte. Dice anche lui che dalla portinaia non ci sta. Egli aveva una precisa antipatia contro quella donna per certe vivissime impressioni ricevute sotto l'atrio e lungo le scale, durante la sua prima gioventù.
Gerardo non vuol troppo inquietarsi; s'è inquietato abbastanza a Roma, per cose più serie, e finisce col sorridere a Teo e coll'accarezzarlo, per rappacificarsi col servitore. Riflette, intanto, quale possa essere la maggiore delle sue seccature: viaggiare col cane, oppure col broncio di Prospero che è capacissimo di farglielo godere per tutto il tempo della villeggiatura...
— Starò lassù un paio di settimane, per riposare, camminare, prendere il fresco e per scrivere un paio di articoli sulle condizioni politiche dell'Italia al Daily Express... Poi, basta Abetone! Tornerò a Roma per una settimana. A Roma ci posso andare senza Prospero e Prospero, invece, potrà tornare a Milano con Matteo!
Il muso di Prospero ha dunque ottenuto l'effetto voluto. Gerardo Parvis è ormai disposto a cedere. Adesso, cerca soltanto di salvare l'onore delle armi e quindi continua a guardare e ad accarezzare il cane, mentre domanda al servitore:
— E se poi disturbasse i forestieri?
Prospero, sempre zitto. Ha finito di chiudere i bauli e tutte le valigie e comincia ad arrotolare il plaid.
— Se poi, qualche notte, si mettesse ad abbaiare?
Silenzio perfetto.
— Basta! Sarà quel che sarà! Condurremo anche Teo in montagna! Ma ricordati, Prospero, ci penserai tu!
— Sissignore!
La faccia del vecchio ha un lampo di sorriso, e Teo, dalla gioia, comincia a squittire frenetico, a correre di nuovo in giro per la stanza, a tirare, a mordere la giacca e i pantaloni del padrone; poi afferra colla bocca una babbuccia di pelle e se la porta via scappando sotto le seggiole e il canapè, inseguito dalle grida e dalle minacce di Prospero.
L'onorevole Parvis ha fatto conto di fermarsi a Pracchia e di salire all'Abetone in carrozza, la mattina presto, col fresco, e così prende l'ultimo diretto, quello della notte per Firenze.
Come tutti gli uomini politici e gli uomini d'affari che viaggiano molto e non hanno tempo da perdere, l'onorevole Parvis legge, scrive, lavora anche in treno, nel suo scompartimento. Un ministro, anche dimissionario, trova facilmente il modo di rimaner solo.
Appena il treno è in moto, egli apre la sua valigetta particolare, leva la cartella, il calamaio, poi un fascio di lettere e di carte. Ne sfoglia, ne esamina alcune attentamente, poi le mette da parte e comincia a scrivere. Sente di dover inviare una lettera al suo sotto-segretario, l'onorevole Donadei. Bisogna persuaderlo che non è il caso ch'egli pure dia le dimissioni, e ciò non soltanto per atto di cortesia, abituale in simili casi, ma altresì perchè al Parvis, preme realmente che il suo collaboratore rimanga qualche tempo ancora sulla breccia a sostenere l'urto delle opposizioni postume ed anche delle postume invettive.
La lettera non è facile a scrivere, neppure per un diplomatico fine e consumato come Gerardo Parvis. Ma il rullio del treno, che non gli permette di scrivere in fretta, gli lascia il tempo necessario di meditare sulle frasi. E non c'è male: certe lettere, quando meno ci si pensa, si vedono poi comparire, al solito momento più inopportuno, su questo e su quel giornale.
Le lettere degli uomini politici, come quelle delle donne che hanno più di un innamorato, non sono mai prudenti abbastanza...
«Onorevole amico,
«Se ho avuto qualche perplessità nel risolvermi ad abbandonare le cure e le responsabilità del Governo e se ora ne provo qualche rimpianto, è soltanto pel rammarico di separarmi da lei, di interrompere un'opera con tanta fiducia iniziata insieme e, mercè la sua intelligente e provvida collaborazione, proseguita in mezzo a contrarie fortune, non senza onore ed utilità.
«Ma questo rimpianto si farebbe in me assai più grave e doloroso, e mi indurrebbe quasi a temere di aver recato danno colla mia risoluzione agli interessi del Paese e delle Istituzioni, ove dovessi apprendere, che per eccessiva delicatezza nell'intendere l'obbligo morale di un'antica e fida solidarietà ella intendesse di ritirarsi a sua volta.
«Il Ministero del quale oggidì Ella regge interinalmente e così degnamente le sorti, è d'indole affatto amministrativa, ed in un paese ove le forme rappresentative fossero più progredite, dovrebbe al pari dei dicasteri dell'Agricoltura, del Commercio, dei Lavori Pubblici e così via — essere sottratto alle vicende troppo di frequente mutabili della politica parlamentare. A questo carattere imperfetto del nostro ordinamento, procuriamo di riparare, anche a costo di personali sacrifici, noi tutti, uomini d'ordine, zelanti del bene pubblico; ed Ella, ne offra l'esempio col rimanere...»
A questo punto, il treno rallenta, poi si ferma nella stazione di Lodi.
Il Parvis sente, tra il fragore del convoglio, il trepestìo dei passeggieri e il gridare dei conduttori, un abbaiare furioso; è la voce di Matteo!
— Bravo!... Cominciamo bene!
Poco dopo aprono lo sportello dello scompartimento. L'Onorevole si volta, guarda... È Prospero, confuso, impacciato, che tiene Teo fra le braccia, Teo che si agita, si dibatte nervoso, furioso, inquieto.
— Che vuoi?... Cosa c'è con quel cane?
— Sa che lei è qui vicino, e non vuol più stare con me!... Non ha fatto altro che abbaiare e smaniare tutto il tempo!
— Te lo avevo detto io!... Avevo preveduto che sarebbe stata una seccatura! «Lei non ci pensi! Lei non ci pensi!» E poi subito, tanto di muso, ostinato, testardo!
Ma più del vecchio servitore, che rimane a testa bassa, l'ostinato e il testardo è Teo, che si divincola, si torce più che mai per sfuggire dalle braccia di Prospero, e ringhia al conduttore, che tenendo con una mano lo sportello, coll'altra cerca