Casta diva. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Casta diva - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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facciamo?

      — Lo tenga con lei...

      La campanella, il fischio...

      — Partenza!...

      Teo fa il diavolo a quattro e Prospero non riesce più a trattenerlo.

      — Dà qui! E ricordati: se non sta tranquillo, alla prima stazione vi lascio a terra: te e la tua bestia! Tutti e due!

      Il cane è già saltato sul sedile, sulle ginocchia di Gerardo, che lo accoglie con uno spintone e uno scappellotto. Ma Teo, in questa circostanza, non si mostra permaloso. Scuote, pieno di allegrezza, le orecchie e la coda, e poi corre a rizzarsi sul finestrino per guardare fuori.

      — Fermo! E quieto! — impone Gerardo con voce aspra e alzando la mano in aria di minaccia.

      Teo capisce... e non capisce. Si acquatta di colpo, si stende sulle quattro zampe. Ma poi, alzando gli occhi, senza alzare la testa, fissa il padrone attentamente, e lo studia, ancora poco persuaso che quel tono di minaccia non sia uno scherzo.

      Prospero frattanto è scomparso; il treno si ripone in moto e l'onorevole Parvis ricomincia a scrivere e continua la sua lettera all'onorevole Donadei.

      Matteo, queto queto, stirandosi sul cuscino, si avvicina al padrone e pone la punta del musetto, lustro ed umido, sulle ginocchia di lui, senza muoversi più. Solo, di tanto in tanto, apre ed alza gli occhi, sempre senza alzar la testa, e guarda Gerardo con una lunga occhiata affettuosa; poi sbatte le labbra mandando sospironi di soddisfazione.

      Quando il treno giunge a Pracchia, comincia ad albeggiare. Fra le varie carrozze che attendono presso la stazione, Matteo distingue subito il più bel landò a due cavalli, e mentre i facchini scaricano i bauli e le valigie, egli salta in carrozza, rimanendo appoggiato accanto allo sportello aperto, sempre guardando il padrone e dimenando la coda a Prospero, quando il vecchio servo si avvicina, per far caricare il bagaglio nella carrozza.

      E per tutto il viaggio, per tutta la salita, Teo non fa altro che passare da un capo all'altro del sedile, in faccia al padrone, allungandosi quasi ad aspirare con delizia i buoni odori della campagna, fiutando Prospero per accertarsi che sia sempre ben lui l'uomo che siede a cassetta presso il cocchiere; poi di nuovo, di qua e di là, spingendosi molto all'infuori dello sportello, quando sulla strada passa qualche mucca o qualche pecora, balzando fin sul mantice del landò quando la vettura s'incontra in un qualche cagnaccio ringhioso che le corre dietro latrando.

      L'onorevole Parvis sorride a Teo, sorride a quella gioia quasi bambinesca e involontariamente apre l'animo alla stessa allegrezza, si sente preso dallo stesso ingenuo benessere.

      A mano a mano che la strada sale e l'aria si fa più pura ed elastica, e dalla foresta, che si stende verde e cupa a ridosso della montagna, esalano più forti i profumi delle resine sotto il sole, anche i pensieri dell'ex-ministro sembrano sollevarsi, farsi più tenui, più languidi. Quei buoni aromi del monte gli penetrano nel cervello, come un blando narcotico, e lo inducono a una lieve sonnolenza cullata dal moto della carrozza, che i cavalli oramai trascinano al passo, su per l'erta, sostando tratto tratto, per riprender fiato. E di quelle fermate, Gerardo Parvis non si indispettisce; tutt'altro! Per la prima volta, dopo tanto tempo, non ha nessuna fretta di arrivare: non ha più nulla che lo stimoli, che lo urga a fare o a dire: non aspetta nessuno, non si prepara a parlare con nessuno, comincia a non pensare più a niente, o quasi!

      — Che silenzio!... Che delizia!

      Poi quell'odor forte della resina che lacrima attraverso la scorza bruna degli abeti, gli richiama la fragranza dell'incenso, che fanciullo aspirava con avidità, nella lunga noia delle cerimonie religiose, al suo paese, nella cappella della ampia e melanconica villa paterna.

      — Quanto tempo è passato! Quante cose, quanti dolori, quanti amici, quanti nemici!

      Ma è inutile. Anche il cumulo delle memorie non vale a rattristarlo sotto quel bel sole, in mezzo a quel verde, a quel silenzio, a quella solitudine! Il silenzio! La solitudine! Che ristoro, che carezza, che pace, che vita nuova! Non par vero che lui, proprio lui, è lì, su quella strada, solo con Prospero, con Teo, col vetturale e non è obbligato nè ad ascoltare, nè a dire, nè a pensare niente, proprio niente, più niente! I soli rumori che ode sono anch'essi discreti, diversi dai rumori soliti: il passo dei cavalli, ogni tanto la musica argentina delle sonagliere scosse, od un sommesso squittire di Teo, che sembra matto di gioia e di piacere, od il ronzìo di un moscone che batte contro il cuoio del mantice e se ne va, o il fruscio d'ali d'uno scarabeo che fende l'aria luminosa con un barbaglio d'oro e scompare...

      Più niente, più nessuno!... Riposo, riposo e pace; la pace profonda, immensa che ha sospirato tante volte, con una nostalgia da studente e da innamorato, in mezzo ai fastidi, alle cure, ai disinganni, alle ire represse, alle ipocrisie forzate della sua vita occupata, preoccupata, eccitata, tutta per gli altri... Come si sente bene, anche di nervi e di stomaco!... Non prova neppure più il bisogno di accendere sigarette, una dopo l'altra, come poche ore innanzi, in treno... Forse è una illusione, ma gli sembra già di avere appetito... Appetito, di quello buono, che fa pensare all'odore del pan fresco e del formaggio, non già quel languore, quegli stiramenti del ventricolo, a bocca amara, che lo avvisavano di aver lasciata passare l'ora del pranzo o della colazione, per sbrigare tutto quello che a sbrigare non si arriva mai!... Più niente! Più nessuno!

      La strada sale continuamente e i villaggi, i casolari, giù nelle vallate ridenti, si fanno sempre più piccoli. Come si fanno piccine anche le impressioni, le cose, le battaglie che fino alla vigilia ingombravano la sua mente, agitavano la sua vita! Come appare meschina e perfida la grande politica di Stato, di fronte a quel cielo così vasto e così puro! Ed anche la sua missione di salvatore della patria e della umanità, quella persuasione intima, inavvertita di essere indispensabile al bene degli altri, non è una fisima, una vanità? Il Parvis comincia a dubitarne, vedendo come tutto intorno fiorisca e gioisca la vita, in un distacco assoluto, in una perfetta ignoranza di tutto quanto si agita e si trascina al basso, nei grandi centri del cosidetto mondo civile... Anche gli uomini — quei pochi uomini che appaiono a rari intervalli sulla via e che la carrozza si lascia dietro — gli sembrano uomini di un'altra razza: più fieri e più onesti nei loro poveri panni, di tutti i suoi colleghi e clienti e adulatori e denigratori di Roma e di Milano, in frak e cravatta bianca... Quasi quasi gli spiace di arrivare anche all'Abetone... Vorrebbe passare la sua vacanza, tutta intera, in quel bel deserto verde, fatto di frescura e di silenzio.

      All'Abetone, fra la folla elegante, sempre a caccia del più piccolo incidente atto a rompere la monotonia della vita, la venuta dell'ex-Eccellenza delle cui dimissioni avevano tanto parlato i giornali, fu un avvenimento vero, importante.

      Era stato consultato l'orario e fatti i calcoli. Si sapeva che l'onorevole Parvis sarebbe arrivato in landò a due cavalli e che quei due cavalli impiegavano nella salita tre ore e mezzo. L'onorevole Parvis doveva dunque giungere all'Abetone verso le dieci.

      E verso le dieci, la larga strada fiancheggiata ai due lati, dalla locanda e dalla Succursale, formicolava di villeggianti incuriositi.

      Quando, sullo stradone, allo svolto ove finiva il bosco d'abeti, spuntò la carrozza, vi fu un mormorìo.

      — È venuto col Narducci!

      Il Narducci era il più bravo vetturale, quello che aveva il più bel landò e i migliori cavalli, dell'Abetone e di tutto Boscolungo.

      Poi, quando il landò fu vicino alla locanda, chi attirò l'attenzione generale fu Teo, sempre appoggiato colle zampe allo sportello, Teo che guardava a sua volta e fiutava curiosamente quei signori e quelle signore.

      Al Parvis la vista di quella folla, il «bel mondo» di Firenze, di Napoli, di Palermo, riunita dalla indiscrezione e dalla smania del pettegolezzo intorno alla sua carrozza, dà un senso di uggia invincibile. Addio buon umore, addio serenità di spirito, addio godimento ingenuo e profondo della campagna, della montagna! Egli ha sperato invano in un altro paese; il paese è sempre quello! L'uomo, come la formica, s'illude inutilmente di trovare la solitudine: gira e rigira, quando meno se lo crede, si trova di nuovo in mezzo al formicaio.

      — Piccolo caaro!


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