Casta diva. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Casta diva - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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più voltar la testa a nessuno.

      Come mai?... La bella amica di Teo è partita?

      Così pensa Gerardo mettendosi a sedere, ma poi la vede al suo posto, fra i due soliti cavalierini rigidi, impettiti e angolosi, come due cavallette nell'abito di sera.

      — C'è! C'è!

      Ma non c'è più il cappellone!... Peccato!

      Nessuna signora aveva il cappello. Gli uomini in smoking o in frak, le signore in toilette; non c'era più nella sala l'allegria espansiva della mattina; correva invece per le due lunghe tavolate un'aria compassata di grande sussiego e di musoneria.

       — Peccato! Stava così bene con quel grande cappello alla moschettiera!

      Mentre l'onorevole pensa al cappellone, il signor Vincenzo — il primo cameriere, — aspetta i suoi ordini.

      — Date anche a me il pranzo del giorno!... Il solito della pensione.

      L'inchino del signor Vincenzo si fa, involontariamente meno profondo. Tante raccomandazioni e tanto strepito per un ministro... che non ordina nemmeno un extra e beve la soda!

      Bel ministro e bel Governo «da carovana!»

      Il Parvis si accorge d'essere un po' in ribasso nella considerazione del signor Vincenzo e nota pure di non destare più nessuna curiosità nell'amica di Teo, la quale mangia di buon appetito e come alla mattina parla, ride, scherza... ma senza occuparsi affatto di Sua Eccellenza!

      — Ha un tipo espressivo; tuttavia dev'essere una ragazza inconcludente! Come può divertirsi tanto ai discorsi di que' due scimuniti?... — Perchè sono due scimuniti!... Positivo!... — Senza cappello ci perde moltissimo! È molto meno bella; non sembra più lei!

      — Desidera senape inglese, o worcester sauce! — domanda il signor Vincenzo passandogli vicino.

       — Datemi il Secolo e il Corriere della Sera.

      E fra un boccone e l'altro comincia a leggere i due giornali.

      Dio, la politica!... Sembra una cosa tanto grande e non è che un pettegolezzo così piccolo! — Baruffe chiozzotte! — Invidie e gelosie, ambizione e volgarità! È l'interesse proprio, colla scusa di fare quello degli altri.

      L'amica di Teo aveva però una voce ben singolare! Che voce strana! Non era forte, eppure come la si sentiva bene, anche da lontano! Che bella voce, calda, penetrante!

      — Una bella voce è una gran bella cosa! Deve avere anche dello spirito, la signorina. Quelle due mummiette vive sono condotte per il naso — si vede — che è un piacere! — Come ride di gusto e come ride bene! — Sfido io a non rider bene con quei denti! Che bianchezza! È una bocca abbagliante!

      — I bei denti sono una gran bella cosa! — Che età potrà avere? Non deve essere più giovanissima!...

      L'onorevole Parvis l'osserva, questa volta con coraggio, attentamente.

      La giovinezza trionfava in lei, in tutto il suo pieno rigoglio: ogni linea, ogni contorno era vivente e fiorente, mentre il volume enorme e capriccioso dei capelli nerissimi sembrava dare alla sua carnagione un brunito di sodezza e di forza.

      — E pensare che con tante belle ragazze e con tante belle donne che ci sono al mondo, io ho speso le ore migliori della mia vita con Saracco... e con Zanardelli! — Al diavolo il Governo e la politica, la Camera e il Senato! — E sua madre? — Ci sarà la mamma, certo. — Dov'è? — La vecchia gialla che le sta di faccia? — No! No!... Non le somiglia affatto! Più che altro, ha l'aria di essere un'istitutrice. — Ad ogni modo, madre o istitutrice, perchè non le sta accanto? Una ragazza seduta in mezzo a due giovanotti, che le fanno la corte... Come sono cambiati i costumi e gli usi del mondo! A' miei tempi...

      Ma a questo punto, mentre l'onorevole Parvis, occupato da così gravi pensieri, si serve distrattamente dell'arrosto e dell'insalata, è richiamato d'improvviso alle piccole realtà della vita e dell'Abetone da una gravissima disobbedienza commessa da Teo.

      ... Com'è stufo il povero Teo di passeggiare su e giù dinanzi alla locanda, legato e tenuto al guinzaglio dal vecchio Prospero! Ogni tanto dà una grande strappata e tenta di mordere il laccio. Peggio ancora quando passa vicino al portone dell'albergo: si ferma, puntando le quattro zampe, s'allunga prodigiosamente. Ma non c'è verso! — Prospero continua passo passo, trascinandoselo dietro inesorabile e muto come il destino.

      Teo si arrabbia, brontola riottoso, ma intanto medita il colpo, e sta attento.

      Un po' innanzi, passato l'albergo, la valle si apre spaziosa e libera, tutta verde di abeti; e in fondo alta, nuda, rocciosa la vetta del monte Cimone prende, in quell'ora del crepuscolo estivo e dopo l'ultima doratura infocata del sole, una tinta arancia, poi violacea, poi quasi rosea, in sullo sfondo, limpido e terso, del cielo azzurrino.

      La giornata non era stata mai tanto bella, nè il tramonto tanto maraviglioso. Prospero contempla a bocca aperta, e Teo, che lo vede in estasi, non perde l'occasione: una terribile strappata e via come una saetta! Infila la porta dell'albergo, infila l'uscio della sala da pranzo e sempre a tutta carriera e sempre tirandosi dietro il guinzaglio passa sotto le tavole, fra le gambe della gente, fra le sottane delle signore, fiutando, annusando, frugando di qua e di là, in cerca del padrone di cui sente l'odore, ma non trova ancora la traccia.

      Il monotono sussiego della table d'hôte è rotto come per incanto: due vecchie inglesi — detestate alla lor volta dai villeggianti, per l'odio che portano alla sigaretta — si alzano spaventate e inorridite, sbattendo i tovaglioli per difendersi. Teo, credendo l'atto uno scherzo e un incitamento, corre loro addosso saltando e abbaiando. Tutti ridono e molti gridano per far del chiasso.

      — Teo! Qui! Teo!...

      — Piccolo caaro! — esclama l'amica, colla sua voce più languida e più tenera e con un accento di ammirazione e di protezione.

      — Caaro! Caaro! Piccolo caaro!

      — Teo! Teo! — L'onorevole è furioso. Quel piccolo caaro gli rimescola il sangue più dell'ira ridicola delle due vecchie inglesi.

      — Teo! Qui! Subito!

      Teo comprende al tono che non è il momento di scherzare. Prima si rimpiatta sotto la tavola, poi esce fuori quatto quatto, tutto basso, tutto lungo, tutto storto, la coda fra le gambe e sbirciando il padrone.

      Gerardo afferra il guinzaglio e di colpo, sollevandolo mezzo da terra, lancia il povero Teo fra le gambe di Prospero che aspettava timoroso sull'uscio e che a sua volta acchiappa il cane e scompare.

      — Povero piiccolo... Che cattiveria!

      L'onorevole sente appena queste parole volare nell'aria, sente il lamento, il rimprovero che gli è diretto e torna a sedere al suo tavolino con una faccia così seria e torva, come se non si trovasse dinanzi ai quarti di un pollo arrosto, ma di fronte ad una schiera di ostruzionisti!

      Passata la collera, gli resta in corpo la stizza. Va presto su, nella sua stanza per dormire. Lo ha preso la stanchezza delle due notti passate in ferrovia e più ancora dell'aria diversa della montagna. Ma prima di coricarsi, dà una lavata di testa sonora, al povero Prospero, che lascia passare la burrasca senza fiatare e questa volta senza metter muso, perchè riconosce il proprio torto.

      — Dov'è quella bestiaccia maledetta?

      — Lì.

      Prospero indica una poltrona in fondo alla camera sulla quale c'è una coperta e sulla coperta Teo, raggomitolato, ma che è stato attento, senza parere, a tutta la grande sfuriata.

      — Se lo fai un'altra volta! Se vieni in sala un'altra volta, stai fresco! — E Gerardo, che ormai s'è sfogato, alza ancora la mano, ma nell'atto, più che una minaccia, c'è adesso un invito... Teo non si muove: gli occhi bassi, socchiusi, guardano da un'altra parte; invece di Prospero è lui, questa volta, che tiene il muso al padrone.

      —


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