Politica estera: memorie e documenti. Francesco Crispi

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       F. Crispi.»

      9 settembre. — Colazione da E. de Girardin. — Viene Gambetta.

      «Parigi, 11 settembre 1877.

      a S. M. il Re d'Italia.

       Sire!

      Prima di lasciar Parigi sento il dovere di dar conto a V. M. della prima parte del mio viaggio, e per lo meno di riferirle le impressioni che io ne porto.

      Giunsi in questa città alle 6 pom. del 28 agosto, e ne partirò domani. Vidi il ministro Decazes, ed i principali uomini politici della Francia, dinastici e repubblicani.

      Tutti rendono giustizia alla lealtà ed alla grande saggezza di V. M., alla bontà ed alla prudenza del nostro popolo. Tutti ritengono gli italiani dotati d'un gran buon senso politico, fortunati di avere un Re il quale ha saputo comprenderne le tendenze e che, in mezzo a tante difficoltà, li ha mirabilmente condotti a buon porto. Ma in fondo a questo splendido quadro appare un punto nero, sul quale dev'essere richiamata la nostra attenzione.

      I francesi diffidano di noi, ed al tempo stesso sospettano che noi diffidiamo di loro.

      Diffidano di noi, e più d'uno crede o finge di credere che l'Italia ha l'intenzione di far la guerra alla Francia. Lo stesso sig. ministro Decazes non espresse chiaramente siffatta opinione, ma parlò con molto interesse dei nostri armamenti e delle fortificazioni di Roma, e parve considerare coteste fortificazioni come aventi uno scopo anti-francese.

      Ragionando col detto sig. ministro e con gli altri signori che me ne avean tenuto discorso, dichiarai che l'Italia ha bisogno di pace, e che riordinando l'esercito e fortificandoci non abbiamo punto l'intenzione di far la guerra, ma di provvedere ai mezzi di difesa del nostro territorio.

      «Il Re d'Italia» — ho detto e ripetuto — «fedele ai trattati ed agli impegni internazionali, non ha dato nè darà mai l'esempio di mancare al suo dovere, ma forte del suo diritto esige solamente che sia rispettato».

      I francesi sospettano che noi diffidiamo di loro, ed a dileguare i dubbii che credono possano essere nell'animo nostro, si sforzano a testimoniarci la migliore amicizia. Il duca Decazes fu molto esplicito in tale argomento, e mi disse e mi ripetè che nissuno dei partiti politici, i quali possono pretendere al governo della cosa pubblica, commetterebbe la follìa di far la guerra all'Italia. Vi sono — egli soggiunse — i partiti estremi i quali oserebbero tentarlo, ma costoro non hanno probabilità di dominio, e poi non avrebbero alcun seguito nel paese.

      A quali partiti S. E. accennasse, io non ho bisogno di ricordarlo a V. M. Sono pur io dell'opinione del signor ministro, che la Francia in questo momento non li seguirebbe; ma nella storia di questo paese l'ignoto è un mostro del quale dovremo temere, e siccome qui non si può essere sicuri dell'indomani, la prudenza c'impone di pensare ai casi nostri.

      La Francia subisce una crisi la cui soluzione è ancora incerta. Repubblicani e governativi si dicono sicuri del fatto proprio e gli uni e gli altri usano i mezzi di cui possono valersi onde riuscire vincitori.

      Non mi occuperò dell'ipotesi del successo dei governativi. Le conseguenze sono prevedibili: Mac-Mahon andrebbe sino al 1880, cioè compirebbe il settennato, col proponimento di chiedere nell'ultimo anno della sua presidenza una revisione della costituzione in senso monarchico. Esaminerò quindi il caso in cui la vittoria toccasse ai repubblicani.

      Se i repubblicani vincessero, quale sarebbe il contegno di coloro che furono gli autori dell'atto del 16 maggio? Faranno essi un colpo di Stato? E se lo tentassero e vi riuscissero, chi ne raccoglierebbe i beneficii?

      Il gabinetto è composto di orleanisti e bonapartisti, e se tutti cospirano concordi per la distruzione della repubblica, ciascuno dei due partiti lavora per il trionfo della dinastia prediletta.

      Nel paese però il partito, il quale ha maggiore vitalità dopo il repubblicano è il bonapartista, il quale parimenti è il più audace. Ma poco importa di ciò, e siccome uno dei due bisogna che soccomba nel caso in cui il colpo di Stato deve esser fatto, il più furbo dei due saprà disfarsi del suo competitore.

      Chiunque dei due vinca, e mettiamo che vincendo possa assumere senza contrasti il governo della Francia, dovrà il suo trionfo all'esercito ed al clero. L'esercito ed il clero — essendo le due forze di cui si sarà valso il vincitore — avranno delle pretese alle quali bisognerà dar soddisfazione.

      Quello che domanda il clero, tutti lo sanno: il ritorno al passato, ed in questo è prima condizione il ristabilimento del potere temporale del papa. L'esercito alla sua volta vorrà rifare con qualche vittoria il prestigio perduto nell'ultima guerra con la Germania.

      È facile il comprendere che il terreno che meglio conviene alla reazione, e nel quale essa crede trovar facile successo, è l'Italia nostra.

      Coteste mie congetture svanirebbero, qualora la Francia abbandonasse le sue male abitudini, giungesse a costituire un regime di libertà, e smettesse per sempre il brutto giuoco delle rivoluzioni e dei colpi di Stato, dai quali nulla può sorgere di stabile e duraturo, la violenza ai tempi nostri non potendo essere buona arte di regno. Noi però dobbiamo regolarci e provvedere come se fosse possibile l'attuazione delle ipotesi da me contemplate. Guai, se un mutamento di governo in Francia non ci trovasse pronti a difendere il trono italiano e l'indipendenza nazionale!

      Non nascondo a V. M. che i repubblicani ritengono impossibile un colpo di Stato. Essi son d'avviso che a Mac-Mahon mancherebbero l'ingegno ed i mezzi morali per un atto così audace, e che l'esercito non si presterebbe a tanto. Era pur di cotesto avviso il signor Thiers che vidi il 31 agosto, cioè tre giorni prima della sua morte e che mi parlò con molta devozione di V. M.

      Dopo tutto quello che le ho rassegnato ho adempiuto al mio ufficio. Nei 29 anni di regno, V. M. ha saputo con la sua intelligenza e col suo coraggio superare difficoltà più gravi di quelle da me prevedute, ed ha saputo evitare pericoli di maggiore entità. Il suo senno, la sua esperienza le suggeriranno quello che converrà fare in previsione degli avvenimenti, intesi i consiglieri responsabili della Corona.

      Mi permetta ora, Sire, che chiuda la presente, dicendomi con tutta devozione e con affettuoso rispetto della M. V.

      L'umilissimo, obblig. servitore

       F. Crispi.»

      12 settembre. — Partenza per Berlino, via Bruxelles, alle 2,45 pom. Pernotto a Bruxelles.

      14 settembre. — Arrivo a Berlino alle 7 ant.

      Alle 12 e mezzo visita al barone Holstein, del Ministero degli Affari esteri, e quindi al conte di Bülow, segretario di Stato.

      Il conte di Launay, ambasciatore d'Italia, viene a trovarmi alle 3 ½.

      Visitiamo il Reichstag; scrivo al presidente Bennigsen[3].

      15 settembre. — Rodolfo di Bennigsen telegrafa da Hannover: «Je viendrai cette nuit Berlin pour avoir l'honneur et le plaisir d'être avec vous».

      Vado insieme a di Launay da Leonhardt, ministro di Giustizia del regno di Prussia, il quale ci manda per competenza da Friberg, presidente della Commissione germanica di giustizia. Parlo a questi dell'adozione in Germania dell'art. 3 del Codice Civile italiano. Egli sarebbe lietissimo di accoglierlo; ma soltanto Bismarck è in grado di superare le difficoltà.

      Parto alle 8 pom. per Monaco di Baviera, dalla stazione di Anhalt. A mezzanotte sono a Lipsia.

      16 settembre. — Sono a Monaco alle 12,30. Parto all'una e mezza per Salisburgo, dove pernotto all'albergo d'Europa.

       17 settembre. — Alle 9,45 ant. per Lend. Di là a Gastein, dove arrivo alle 6.

      Wildbad, la città dei bagni, siede in cima alla vallata di Gastein, sul versante orientale del monte. Ivi è una sorgente di acque minerali, alle quali molti ricorrono per guarirsi dal torpore delle membra e dalla inerzia dei nervi. Ogni anno vi arrivano più di 3000 forestieri a cercarvi salute. Ordinariamente, le persone che vi convengono appartengono alle alte classi sociali.

      Il monte dà origine


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