Amedeide. Gabriello Chiabrera

Amedeide - Gabriello Chiabrera


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Saran del ciel cura pietosa intanto;

       Là fa scudo a gli altar, fa scudo ai Tempi,

       E di Savoia sempiterna il vanto;

       Così diceva; e di pietate accese

       L'anima fida a le sacrate imprese.

      XXII

      S'invola poscia il volator Divino,

       Qual sparisce per l'aure aureo baleno.

       Tende le palme, e reverente inchino

       Traeva gridi il cavalier dal seno:

       Qual celeste pietà, qual mio destino

       Ti veste l'ali? e giù dal ciel sereno

       A questo afflitto dispensar conforto

       Te quì possente messaggiero ha scorto?

      XXIII

      Deh se ne l'alto ciel fatto hai ritorno,

       Mio pronto cor, deh tua pietà non cele;

       Esponlo, prego, a' piè di Dio; col giorno,

       Qual tu m'impon, dispiegherò le vele;

       Pronto a morir, con mille rischi intorno

       A' cenni suoi combatterò fedele.

       Sì da l'antro deserto, ove ei si serra,

       Volgesi a Dio con le ginocchia in terra.

      XXIV

      Nè così tosto a l'immortal sentiero

       Mosse la fulgida Alba il piè celeste,

       Ch'ei nel fondo del cor sveglia il pensiero,

       Come se stesso a la partenza appreste.

       Su l'erma piaggia non pervien nocchiero;

       Or come troncherà l'aspre foreste?

       Onde bipenne avrà? con quali ingegni

       A far naviglio tesserà quei legni?

      XXV

      In tanto affanno ver la terra inchine

       Ferma le ciglia; e giù nel sen non posa

       Il cor, che vuol, nè può partirsi; alfine

       Ne ritrova la via l'alma animosa;

       Vassene a l'aspre rupi indi vicine

       Là, 've le navi sue l'onda spumosa

       Con lungo assalto tempestando aperse,

       E sovra i liti le lasciò disperse.

      XXVI

      Ivi le travi, che fur scherzo a l'ira

       De l'Oceàno, col pensier misura

       Intentamente; e benchè rotto, ei mira

       Che quasi in stato un battelletto dura;

       Ponvi la mano, e su l'asciutto il tira;

       Poscia fornirlo, e risaldar procura

       Con gli arnesi sdrusciti, e con le sarte,

       Che de la vinta armata il mare ha sparte.

      XXVII

      Ed al fin punta in su la ripa il piede,

       E 'n varando il naviglio ei su v'ascende;

       E poi da terra allontanato il vede,

       Picciola vela agli aquilon distende.

       Ma su la poppa non veduto siede

       L'Angelo seco, ed al governo attende

       Con occhio intento, e per la fragil nave

       Spira su lucida onda aura soave.

      XXVIII

      Nè con sembiante neghittoso e lento

       I gran soccorsi rimirava Aletto,

       Mostro infernal, cui sol pena e tormento

       Di Rodi afflitta empiea di gaudio il petto:

       Volse il pensier per mille parti intento

       A sviarne il campion dal Cielo eletto,

       E quando ella il dispera, aspra s'ingegna

       Di far Rodi espugnar prima ch'ei vegna.

      XXIX

      Teme del campo a Rodi avverso, teme

       Del Tartareo tiranno aspri destini;

       Nè può mirar da le miserie estreme

       A sua salute i Rodïan vicini.

       Arsa tra queste furie ulula, e freme

       Livida i guardi, invenenata i crini;

       Nè punto cessa intra furori immensi,

       Che su lo strazio de Cristian non pensi.

      XXX

      Quinci un momento sol non spende in vano;

       Ma di Bostange ella vestì sembianza,

       E volò trasformata ad Ottomano

       Là sotto Rodi in ammirabil stanza:

       Ponsi ivi al petto l'una e l'altra mano,

       E reverente a la real possanza

       La fronte inchina, e le ginocchia piega,

       E con tal voce i suoi pensier dispiega:

      XXXI

      Perchè dal ferro, e dal travaglio oppressi

       Alcuna requie i tuoi guerrier ristori,

       Già molti dì dal guerreggiar tu cessi,

       E del tuo fiero cor tempri gli ardori;

       Rompi i riposi al campo tuo concessi,

       E con l'armi risveglia i tuoi furori,

       Risvegliali, Ottomano; ecco a gran corso

       Sen viene inverso Rodi alto soccorso.

      XXXII

      A piè de' monti, e fra quelle alpi estreme,

       Onde il Francese inver l'Italia scende,

       Regna AMEDEO, che di virtù supreme

       Quasi un fulgido Sol quivi risplende;

       Forte così, ch'ogni nemico il teme,

       O se spada impugnando egli contende

       Fuor di dorato arcione, o se con asta

       Su corridor spumante altrui contrasta.

      XXXIII

      Deggio forse narrar come possente

       Domò l'orgoglio de' vicin nemici,

       O ne i regni lontan come non lente

       Spiegò l'insegne a sollevar gli amici?

       Che più narrar degg'io? l'inclita gente

       Sempre in guerra ha vibrato arme felici;

       E questi ad emular forte s'accese

       Di tanti avi magnanimi l'imprese.

      XXXIV

      Scoterà forte il tuo sì saldo impero,

       Farassi appoggio a queste debil mura:

       Sorgi, sorgi, Ottoman; tanto guerriero

       Precorri armato, e trïonfar


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