Amedeide. Gabriello Chiabrera

Amedeide - Gabriello Chiabrera


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      LXI

      Han per iscorta in arme otto stendardi

       Col nome di Giassarte a l'aura stesi,

       Gagliardo in guerreggiar tra' più gagliardi,

       Colmo di spirti in bella gloria accesi.

       Non son l'orme di questi a seguir tardi

       Gli armati, che di Misia hanno i paesi;

       Fur cinque mila; e li conduce Alete,

       Mal sempre acceso d'amorosa sete.

      LXII

      Popol seguìa, ch'abbandonò le rive

       Di Xanto, e d'Ida la selvosa altezza,

       Ove nude mostrar l'antiche dive

       Al mortal guardo l'immortal bellezza;

       È duce Alcasto; di costui non vive

       Braccio, ch'avventi stral con più certezza;

       Quì seco d'armi nove insegne ei mena,

       Nè del Xanto rivide unqua l'arena.

      LXIII

      Ultimi di ciascun mossero il piede

       Numerosi di Ponto abitatori.

       Questi in cura a Bostange Ottoman diede;

       Seco ha cinquanta Capitan minori;

       Bostange per età, per lunga fede

       Godeva in guerra i più sublimi onori,

       Chè là, dove Ottomano oste conduce,

       Sempre in vece di lui nel campo è duce.

      LXIV

      Scita di sangue; per virtù d'ingegno,

       Per lingua scaltra, per gentil sembianti,

       E per opra di man cotanto è degno,

       Ch'a tutti altri guerrier trapassa avanti.

       Tanti, e sì fatti fur di ciascun regno

       I duci sommi, e fur cotanti i fanti;

       Poscia nube di polve al ciel solleva

       Squadra, che freno a' corridor stringeva.

      LXV

      Gli scorge Araspe; ei lungo il mar vermiglio

       Ebbe culla in Arabia, almo paese,

       E bel fu sì, che con l'ardor del ciglio

       In alta fiamma la Reina accese;

       Quinci posto di morte in gran periglio,

       Lunge dal Re geloso a fuggir prese;

       E poscia appo Ottoman cotanto sorse

       Che duce in guerra i cavalieri ei scorse.

      LXVI

      Nè mai per selva trapassar sì fiero

       Centauro in caccia rimirò Tessaglia,

       Come ei su rapidissimo destriero

       Nel polveroso pian move in battaglia;

       Cinto di ricca spada, in atto altiero,

       Fea per l'aria tremar lunga zagaglia,

       Coperto il busto di fregiati argenti;

       E gli altri in campo lo seguian non lenti.

      LXVII

      Son mille, e tutti scelti; arcione, morso,

       Scudo, asta, brando di tesor cosparsi;

       I bei destrier, che li reggean sul dorso,

       Quasi nutriti d'aura, odian fermarsi;

       De' ferri al suon, di sì gran gente al corso,

       L'onda intorno del mar sembrò turbarsi,

       E mugghiò il grembo de le valli erbose,

       E le fronti de' monti alte e selvose.

      LXVIII

      Qual s'avvien, che Vulcan selva divori,

       Quando fra l'arse piante Austro discende;

       Mirasi il ciel sotto i dispersi ardori,

       Ch'orribile a veder, lunge risplende;

       Tal da l'armi dorate aurei splendori

       Il sol quì tragge, e così l'aria accende,

       Che fiammeggiavan di volanti lampi

       Le rive, i colli, le foreste e i campi.

      LXIX

      Sì l'oste in trapassar non men guerriera,

       Ch'altieramente dimostrossi adorna;

       E quando da mostrarsi altri non era,

       Verso i tetti reali il Re sen torna.

       Ma fin, che Febo il carro inchini a sera,

       La plebe i ferri ad apprestar soggiorna

       Dentro le tende, ed hanno i cor conversi

       A via più farli impiagatori, e tersi.

FINE DEL PRIMO CANTO.

      ANNOTAZIONI

       Indice

      AL CANTO I.

      L'anno 1654, per le stampe di Benedetto Guasco si pubblicò in Genova in forma di 12 la—Amedeida poema eroico di Gabriello Chiabrera con gli argomenti in ottava rima del Forestiero Idrontino e con la vita dell'Auttore (sic) da lui stesso descritta—Dopo la dedicatoria del Guasco a Gio. Francesco Tasso, e dopo l'avviso dello Stampatore, si leggono le parole seguenti:

      «Questo poema esce in luce nella forma, che l'Autore lo compose da prima, e vivendo volse, che così appunto si stampasse.»

      Come avvenisse che un poema composto dapprima di soli canti dieci, qual si legge nell'edizione del Guasco, crescesse fino a canti 23, quanti se ne contano in quella del Pavoni, può vedersi nelle lettere del Chiabrera a Bernardo Castello, che si stampano dal signor Ponthenier.

      Avendo promesso di dare in questa nostra edizione l'una e l'altra Amedeide, e non volendo ingrossare il volume, si è pensato di collocare appiè di ogni canto della maggiore tutte le varietà che s'incontrano nella minore; notando accuratamente tutto ciò che non è in questa e si trova in quella, e riscontrando minutamente l'uno e l'altro esemplare per cavarne le varianti.

      Nell'Amedeide minore, innanzi al canto primo si legge così:

      SOGGETTO DEL POEMA.

      «Che uno Amedeo di Savoja già difendesse Rodi, è fama universale: alcune istorie dicono ch'egli la difendesse da Ottomano Signore de' Turchi; ma qual modo fosse tenuto in difenderla, non si racconta distintamente: come potesse avvenire narrasi in questo poema, per dare diletto a' Lettori.»

      Il Forestiero Idrontino che fece gli argomenti all'Amedeida minore, è Andrea Peschiulli, natìo di Corgliano in terra d'Otranto, e perciò detto latinamente Idrontino; e stampandosi quegli argomenti in Genova, tanto lontana dalla sua patria, con ragione poteva darglisi il titolo di Forestiero. Fu amico di alcuni Genovesi, e specialmente del famoso Padre Angelico Aprosio, che ne fa onorevol memoria nella Biblioteca Aprosiana pag. 336 e segg.

       Argomento del Peschiulli al canto I. dell'Amedeida minore.

      Prega


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