La carità del prossimo. Bersezio Vittorio
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Vittorio Bersezio
La carità del prossimo
Pubblicato da Good Press, 2020
EAN 4064066072650
Indice
I.
Siamo in una stanzaccia ampia, alta, nuda, illuminata da un lucernario di vetro a mezzo il soffitto, colle pareti grigiastre tappezzate di quadri abbozzati, di braccia e di gambe di gesso, di pipe e di ragnateli: in una parola, lo studio e l'abitazione di un pittore. Non occorre dire che ci troviamo sotto le tegole del tetto, al di sopra di quattro piani d'una gran casona, alveare umano che alberga una quantità di famiglie.
Questo studio è anche la dimora del pittore—che sto per presentarvi—e della sua famiglia; poichè il nostro eroe, per dirvela ad un tratto, possiede un gran buon cuore, buon umore da venderne, poco coraggio, non troppo ingegno, povere fortune, una moglie borbottona e quattro bimbi.
I misteri famigliari sono nascosti agli occhi dei profani che penetrano nello studio, da un lungo paravento, di dietro il quale suonano quasi senza intermittenza grida e pianti di bambini, rampogne ed impazienti esclamazioni della madre, e fanno di quando in quando irrefrenabile sortita i tre più grandicelli ragazzi a cavallo del bastone del papà, dell'ombrello della mamma e dell'appoggiamano per dipingere.
Al momento in cui vi prego di penetrar meco nello stanzone del pittore, le fortune di Antonio Vanardi—questo è il nome dell'artista—sono più povere che mai. È pieno di debiti; da ogni parte da cui si volga corre rischio di vedere la faccia corrucciata di un creditore che non può pagare; e più corrucciato e più inesorabile di tutti fra questi creditori lì il padrone di casa, a cui Vanardi deve due semestri d'affitto, e non sa dove battere la testa per avere di che pagarlo.
Questo padrone di casa—come tutti quelli delle commedie, dei drammi e dei romanzi—è un uomo che non conosce guari dove stia di casa la pietà, e non capisce che un'attinenza verso i suoi locatari: riceverne danaro per la pigione a tempo debito e scrivere loro una buona quietanza colla sua buona firma sotto, nella sua scrittura commerciale che finisce sempre l'ultima lettera con un ghirigoro pieno di eleganza: Fiorenzo Marone.
Benchè egli abbia questo nome illustre, non lo crediate già discendente dal celebre poeta mantovano. Di Virgilio il brav'uomo non aveva inteso mai nemmeno a parlare, ed i versi non sapeva che razza di bestie si fossero.
To', poichè il signor Marone mi è capitato qui sotto il becco della penna, ci stia un poco; ed abbiate pazienza, cari lettori, mentr'io mi indugio un tantino a schizzarvene il ritratto alla sfuggita.
È un uomo oltre i sessanta, grande, grosso, a faccia di villano e maniere uguali, a spalle larghe, naso lungo, occhi di gatto, denti di rosicchiante, mento quadrato, mani grosse, piedi da lacchè, sorriso falso, fronte stretta e coscienza Dio sa come. Vuole dare alla sua fisonomia un aspetto d'umiltà e di bonarietà che stona maledettamente colla grossezza delle sue forme; mette la sordina alla sua voce da boattiere, e non guarda mai negli occhi la persona a cui parla.
La sua storia è contata in quattro parole. È figliuolo d'un villano che nei primi anni del secolo veniva in Torino i giorni di mercato, spingendosi innanzi un asinello, a vendere formaggioli sulla piazza delle erbe, che ora è piazza del Palazzo di Città. Fiorenzo, sbarazzino di due lustri incirca, l'accompagnava trottando coi piè nudi, una bacchetta in mano, dando il cis-va-là e le botte al somarello restio. Più tardi successe egli, fatto giovinotto, nel commercio paterno. Seppe governare così bene e rammontare colla parsimonia, che era un'avarizia, soldo sopra soldo, che un bel dì si trovò a capo d'un certo capitale, colla buona voglia di moltiplicarlo il più possibile e coll'accortezza necessaria per riuscire in questa operazione aritmetica, per cui si sentiva una vera vocazione datagli dalla natura.
Su quella medesima piazza che lo