La carità del prossimo. Bersezio Vittorio

La carità del prossimo - Bersezio Vittorio


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parsimonia tutto quel poco di risparmio che fino allora era riuscito a mettere in disparte con un vero miracolo di economia: poi una gran parte dei suoi mobili, cominciando dai meno necessari e venendo poi agli abiti, avevano preso il cammino del Monte di Pietà, e neppure uno aveva ancora saputo trovare quello del ritorno a casa.

      Il povero Antonio, smesso ogni orgoglio, andò a dimandar lavoro a questo ed a quello. Le ripulse non lo stancavano, ebbe il coraggio di affrontare i più superbi rifiuti, e dalla sua perseveranza ottenne qualche buon risultato. Dipinse un orrido turco dall'orrida barba con una lunga pipa in bocca pel tabaccaio; una slombata fortuna (e la fece brutta per dispetto) che gettava pioggia di denari da un corno d'abbondanza, pel banco del lotto; e persino (che umiliazione!) una bottiglia che schizzava il turacciolo per aria ed il vino nei due bicchieri che gli stavano a fianco, per l'oste a cui doveva sei lire. Il tabaccaio gli diede poco, il banco del Lotto anche meno, ed il mercante di vino un bel nulla.

      Come se non bastasse tutto questo, mentre la miseria cresceva, l'umore taccoliero della moglie cresceva ancor esso in proporzione. Non è già che la Rosina non volesse bene al suo Antonio, oh! per codesto ella si meritava ogni elogio, chè glie ne voleva anche troppo; da prendersi tanta cura d'ogni fatto di lui che gli riusciva fastidievole.

      Guai s'egli non tornasse a casa appuntino all'ora che aveva detto!

      —E dove sei tu stato? e che hai fatto? e come perdi il tuo tempo? e che pensiero ti dai della tua famiglia? E tu a spasso, ed io a rodermi qui dentro d'inquietudine con questi marmocchi intorno che mi tolgono la testa ecc., ecc.

      E tocca via con un mondo di parole cosiffatte e di ragioni sragionate e di rimbrotti senza causa e di lamentazioni e di chiaccole da non finirla più.

      Ad Antonio, benchè ci avesse ormai fatto il callo, quelle scene erano gravi. Aveva tentato di tutto per farla smettere alla moglie; ma sì, imporre silenzio ad una di cotali donne, era impresa da ben altri che il povero pittore non fosse. Quindi per lo migliore, ei s'atteneva il più sovente al silenzio, e lasciava passare senza ostacoli l'onda abbondevole e furiosa delle muliebri parole.

      Rosina s'accorgeva d'essere grave al marito, e ne soffriva, e se ne adontava e ne imbizzarriva peggio con esso lui.

      —Già tu ti vergogni di me: diceva essa delle volte, mezzo piangente, mezzo furibonda: non sono che una popolana io…. oh! lo so…. e tu sei della razza de' signori tu… Bel signorone affè mia, che lasci crepar di fame e moglie e figliuoli!… Non ho le belle maniere delle dame io!… Ma toccherà a me un bel giorno guadagnare il pane della famiglia con queste dieci dita che m'ha fatto la mamma…. O belle le cerimonie!… O care le stampite della buona società…. o grazioso il saper discorrerla in quinci e quindi!… Ed io non ne so nulla del vostro bel gergo…. Io quando parlo, tu mi fai gli occhioni che pare mi vogli mangiare cruda e fatta…. E se ti duole di me, e se te ne pesa, e tu non dovevi sposarmi…. O che son io che vi ti ho costretto col coltello alla gola forse?… T'adonti perfino di accompagnarmi per istrada… Oh! nei primi tempi del nostro matrimonio non era così che facevi…. E me lo dice persino messer Agapito, che non è di questa guisa che uno si governa colla moglie se le vuol bene.

      —Messer Agapito s'immischi nelle sue spezierie e non venga a romperci le tasche: gridava a questo punto Vanardi spazientito.

      —Gli è che ha ragione: ripigliava la moglie con maggior calore: tu non mi vuoi più bene… Sei un cattivo, sì… perchè dovevi lasciarmi stare… Ed io col mio ago mi guadagnerei da vivere un po' meglio…

      Antonio voleva placarla. Essa lo respingeva bruscamente; afforzava i suoi rimbrotti; terminava con piangere, e si ritraeva musonando e singhiozzando in un angolo della stanza. I fanciulli vedevano piangere la madre e si cacciavano a strillare ancor essi. Vanardi faceva a calmar l'una e ad azzittire gli altri; ragionava, pregava, gridava, minacciava: niente vi riusciva, finiva per andare in collera, bestemmiava come un turco, e stucco, intronato, infastidito, si cacciava il suo cappellaccio in testa e si precipitava fuori di casa, a passeggiare, le mani in tasca, guardando da vero sfaccendato i dipinti esposti nelle vetrine di tutti i mercanti di stampe, ai quali terminava sempre per andare ad offrire un quadro di suo, cui tutti, a buona ragione, si affrettavano sempre a rifiutare con entusiasmo.

      —Oh che vita! oh che vita! esclamava talvolta il povero diavolo. E pensare che la debbo all'amore dell'arte, e ad un matrimonio per amore! C'è da disgustare chicchessia dell'una cosa e dell'altra. Mah! se avessi fatto il droghiere!… Eh! via, questa è viltà! Che? Rinunzierei al nobile sacerdozio dell'artista? Mi lascierei scoraggiare dall'impertinenza della sorte? Oibò! Tutti i grandi uomini sono crepati un pochino di fame: ed Andrea del Sarto aveva una moglie peggiore della mia… Sono un pusillanime s'io indietreggio innanzi a quest'iniziazione alla gloria.

      E ripigliava la sua tranquillità e il suo buon umore, che erano figliuoli dell'eccellenza del suo carattere.

       Indice

      Ma esaminiamo più minutamente il quartiere del nostro pittore cui centosessanta scalini separano dal fango della strada.

      Era una specie di gabbia quadrata che sorgeva sul tetto in mezzo alle più umili soffitte, e generosamente concedeva i buchi delle sue muraglie all'esterno alla nidificazione dei passeri. La luce, come vi ho già detto, pioveva per entro da un lucernario che si trovava a mezzo il soffitto; alcuni suoi vetri, mal difesi da una graticella rotta di ferro, erano stati fracassati da una grandinata della state e sostituiti dall'arte provvida del pittore con fogli di carta unta. Le pareti avevano su una tinta di color grigiastro, sopra il fondo della quale facevano da arazzi i ragnateli, e frammezzo ad alcune braccia e gambe di gesso appiccatevi contro si scontorcevano le più bizzarre figure disegnate dal matto pennello o dalla bianca creta di Antonio. Un gran paravento alto più che la statura ordinaria d'un uomo divideva la stanzaccia in due: dall'una parte, appena entrati dall'uscio, trovato lo studio: ve lo definiscono tosto per tale due cavalletti, di cui uno zoppo, senza tele, un alto seggiòlo senza spalliera, che perde la paglia di sotto il piano da sedere, e un trespolino su cui una cassetta di colori dalle boccettine assecchite, una tavolozza più secca ancora che pende dal muro, e un esercito—irregolare—di pennelli di ogni fatta e misura, che giacciono dispersi, come dopo una sconfitta, da tutte le parti.

      Una piccola stufa in ferraccio sta lì, quasi a metà dello spazio, colla bocca aperta ad aspettare inutilmente un po' di pasto di legna o di carbone. Sopra ci si vedono in disordine l'uno addosso all'altra una tazza vuota senza maniglia, una crosta di pan secco, una pipa, una borsa da tabacco floscia ed un romanzo illustrato di Paolo di Kock colla copertina tutta strappata e i fogli laceri. La misera stufa innalza bensì un tubo di ferro che traversa per lo lungo la stanza, disposta a mandar calorico per esso; ma la deve rimanersene alla buona intenzione, e il tubo medesimo è tanto freddo da gelar la mano imprudente che si avventuri a toccarlo. Voi capite da ciò che colà dentro regna senza temperamento una atmosfera da Siberia.

      Nella parte seconda della stanza, separata dal paravento, voi ci vedreste: in mezzo, un desco a cassetto; da un lato, alla muraglia, un letto pei genitori, dall'altro, uno stramazzo pei tre bambini più grandicelli; appiè del letto, la culla dell'ultimo nato. Nell'angolo destro c'è un fornelletto a due buchi, in quel sinistro un acquario; lì vicino una secchia colla tazza di latta sopravi; poi una cassapanca che fa da canterano, una scancia su cui qualche stoviglia, tre bicchieri, una bottiglia nera, una caraffa bianca incrinata e un acetabolo senz'ampollini; appesi al muro un ramino, un mestolone ed una padella. Cinque seggiole fanno meraviglie d'equilibrio per tenersi ritte sulle loro gambe scassinate.

      Un solo oggetto di qualche valore si nota fra tanta miseria; ed è un quadro con una cornice dorata, che rappresenta dipinta con colori a olio una giovine donna.

      Era una bella figura che aveva nell'espressione del viso alcun che di soave e di mesto per cui era impossibile il guardarla senza simpatia e quasi direi senza commozione. Vanardi teneva quel ritratto, perocchè fosse un ritratto, come cosa preziosissima. Di ogni altro oggetto, anche del più necessario, si sarebbe prima spogliato che non di quest'esso. Era il ritratto della donna


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