I Mille. Garibaldi Giuseppe
sole del 26 maggio nascondevasi dietro i pittoreschi monti che circondano la Conca d’oro a ponente, fosco, rossiccio, come se macchiato di sangue—e col crepuscolo d’un giorno infocato cominciavano a vedersi, nelle pubbliche passeggiate, alcune carrozze con dentro il bellissimo sesso della stupenda capitale. Non numeroso però, abbenchè le donne, colla loro educazione presente, non si curin quanto dovrebbero delle miserie ed umiliazioni della patria: v’era nell’atmosfera naturale e politica qualche cosa che inaridiva ogni voglia di divertimento.
Era scirocco? Credo non fosse. Col scirocco, le popolazioni meridionali agiate chiudonsi soventi dentro casa—trovando insopportabile l’afa che si respira al di fuori.—Il bracciante la trova meno insopportabile della fame, e lavora anche spossato dal soffocante scirocco.
Il sole del 26 maggio era al tramonto e tra le poche carrozze che circolavano sulla deliziosa sponda del Mediterraneo una se ne scorgeva che all’occhio indagatore presentava un aspetto diverso dalle altre.
Perchè coperto quel veicolo? perchè vuoto?—poichè ben difficile scoprire in quel fondo oscuro un coso a sembianza umana, che dico? a sembianza d’un demonio!
Quella carrozza coperta aggiravasi come le scoperte, occupata da gente più o meno oziosa e che in quella sera, più per consuetudine che per gusto, faceva il solito andirivieni.
L’occupante però di quella—come il gufo—nascondevasi dalla luce, ed aspettava le tenebre, per attuare i suoi divisamenti sinistri.
E ne avea ben donde Monsignor Corvo—il più astuto e scellerato dei gesuiti—di nascondersi all’umano sguardo. Se, come m’è successo qualche volta d’esser solleticato a far una buona azione—tale prurito fosse venuto ad alcuno dei generosi palermitani presenti—esso potevasi precipitare in quella carrozza di cattivo augurio, strapparne fuori il malvagio, e schiacciarlo col tacco del suo stivale per non contaminarsi le mani, come si fa del velenoso rettile.—Egli avrebbe compito opera santa e liberato l’Italia da uno de’ suoi più perversi e nocivi nemici.
E lì, nelle vicinanze del sinistro augello, si aggirava uno: giovane, bello, forte, tipo di quella gioventù palermitana sì propensa all’eroismo del martirio.—Cozzo, il valoroso amante di Lia con altri compagni della stessa tempra da lui guidati, avean giurato di liberar i patriotti prigionieri nel forte di Castellamare. Ed eran molti i detenuti—appartenenti per la maggior parte al fiore dei propugnatori della Libertà Italiana.
Essi passeggiavan divisi e lontani dall’ergastolo borbonico—per coprire il loro disegno—e Cozzo, or sapendo che la prigione racchiudeva il suo tesoro, la sua Lia era d’un’impazienza indescrivibile di cominciar a menar le mani.—Poi si sapeva delle due bellissime forestiere compagne della palermitana la di cui fama s’era duplicata sotto il velo del mistero.—Solo sapevasi ch’esse provenivano dai Mille.
E Cozzo coi compagni che avrebbero potuto liberar il mondo da un demonio tentatore, non se ne occuparono credendo vuoto il veicolo—e penetrati com’erano dalla santità della loro impresa.
Indice
CAPITOLO XVI.
COZZO E I CINQUANTA PALERMITANI.
Les cloîtres, les cachots, ne sont point son ouvrage.
Dieu fit la liberté—l’homme a fait l’esclavage.
(Chenier).
Quand’io considero quella serie di mostruosi governi che da secoli reggono la meridionale Italia—con popolazioni energiche come son quelle—cresciute sulle lave dei nostri vulcani—io concludo: che non basta l’energia per fare un popolo libero e grande.—Dirò di più, che non basta l’energia e l’intelligenza, poichè a dovizia possiede il nostro popolo l’una e l’altra qualità.
E qui devo ancor mettere la mano sulla piaga della nostra patria infelice: il clericume—ossia l’impostura.
E chi potrà negarmi che sia il pretismo la base su cui poggiano tutti i governi perversi?
E mentre si millanta progresso, incivilimento dovunque—in questi giorni stessi trionfa nelle elezioni al Parlamento Belgico, il clericume!—E chi può sottrarre all’influsso malefico del 2 dicembre protettore della menzogna, i piccoli Stati che attorniano la Francia, quali l’Italia, la Spagna e il Belgio?
Manca certamente al nostro popolo la disciplina—che tanto grandi fece i nostri padri—la disciplina da cui lo distolgono una mano di dottrinari per la gloriuzza d’esser chiamati grandi, mentre sono piccolissimi.
E ciò mi spinge sempre più all’idea d’una Dittatura onesta e temporaria.
Il «Siate tutti soldati, tutti ufficiali, tutti generali» del Mazzini, significa «Siate tutti una Babilonia!»
Cozzo! Pare impossibile; la terra dei gesuiti e dei preti—l’Italia—partorisce anche i Cozzi—quelle antitesi così pronunciate del malvagio!
Io l’ho veduto Cozzo—bello come una fanciulla e giovanissimo.—Cozzo che non s’è mai presentato che al momento del pericolo—e nel pericolo sempre tra i primi, io l’ho veduto a Caserta—morente—col petto rotto da una palla borbonica—e baciai cogli occhi umidi quella fronte d’angelo!
Egli sorrise vedendomi—d’un sorriso che terrò scolpito nell’anima fino alla morte—e pronunciò le ultime solenni parole: «Io sono felice d’aver dato la vita al mio paese!».
E tutte le provincie italiane possedono i loro Cozzi da non esser superati da nessuna casta nel mondo.
Cotesti superbi rappresentanti dell’abnegazione, del decoro, del martirio, della dignità umana scaturiscono dalla folla di quella moltitudine corrotta che serve di piedestallo alla menzogna ed alla tirannide—e qualche volta la dominano e la guidano verso il bene—ma spesso vi rimangono travolti, superchiati, sinchè i cilicii e le battiture la riconducono ancora sulla via tracciata dai liberatori.
Ogni provincia possiede alcuno dei prototipi della nobile Legione—e l’Italia ne può andar orgogliosa.—Essa mai è meno dei Mille, ma il giorno in cui la gioventù italiana capisca, quanto sia grande il titolo di militi di quella incomparabile Legione—in quel giorno: Addio menzogna e tirannide.—La libertà riscalderà, vivificandola, questa terra delle grandi glorie, e delle grandi sventure!
Era la mezzanotte, quando Cozzo, dopo di aver riunito i cinquanta coraggiosi figli di Palermo, marciava risoluto all’assalto di Castellamare, presidiato da cinquecento uomini—da molta artiglieria—e colla parte del mare protetta dalla flotta borbonica, schierata a poca distanza.
I Borbonici apprezzavano giustamente la posizione di Castellamare—sia per la facilità di poter sbarcare al sicuro ogni specie di sussidio d’uomini, armi e vettovaglie—sia per facilitare la ritirata delle guarnigioni di Palermo sulla base dell’imponente flotta.
E perciò mantenevano quel propugnacolo della loro tirannide, molto provvisto dei migliori soldati, d’armi, di munizioni, e d’ogni specie di cose necessarie.
«Che importa!» aveano esclamato i cinquanta campioni della libertà italiana «più ardua è l’impresa, e più gloriosa».
E qui mio malgrado devo ancora fermare i liberatori per un inaspettato evento.
Un’illuminazione a giorno, pria a Palazzo Reale, poi a Castellamare, ed in seguito ne’ pubblici stabilimenti e nelle case di quanti impiegati borbonici si trovavano in Palermo—e di quanti non poterono esimersi dall’ordine d’illuminare—fermò i nostri mentre s’accingevano ad attraversare la piazza che divide Castellamare dalla Città.
Un rovinío di cannonate dai forti e dalla squadra assordava la gente, e più ancora le grida selvagge di tutta la ciurmaglia borbonica, con gli evviva a quel modello di monarca e morte ai filibustieri!