I Mille. Garibaldi Giuseppe

I Mille - Garibaldi Giuseppe


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polve—e la peste pretina—compimento delle miserie e delle degradazioni umane.

      Le prigioni del despota eran zeppe a Palermo ed i fatti di Maniscalco e del 4 aprile le avean colme—giacchè la prigionia serve alla tirannide per reprimere non solo le aspirazioni dei popoli ma per spaventarli.

      Lascio pensare in che orgasmo di diffidenza e di paura si trovarono le autorità borboniche nella capitale della Sicilia—allo sbarco dei Mille a Marsala.—Se vi si fosse potuto imprigionare i dugentomila abitanti, sono certo, i Borboni non vi avrebbero ripugnato.

      E dopo Calatafimi e la marcia dei filibustieri sulla Metropoli? Dio me ne liberi! In tali frangenti entrarono in Palermo Lina e Marzia e Lia—la graziosa contadina dell’Agro Palermitano—le tre vestite a foggia del paese, e favorite dalla prima oscurità d’una notte di maggio.

      Ho già detto: la terra del Vespro non è terra da delatori, ed era probabile che tre ragazze del paese, appartenenti al ceto rurale, potessero entrare senza eccitar sospetti nella popolosa capitale.

      La coraggiosa fanciulla—che abbiam veduto alla testa degli eroi di Calatafimi in quella solenne pugna—fu padroneggiata da tal brivido in tutte le membra, le luci le si ottenebrarono in tal modo, che non sentiva più il terreno sotto i piedi, traballò come in uno stato d’ubbriachezza, e senza il sostegno di Lina—a cui s’appoggiò subito—si sarebbe rovesciata sul macigno del marciapiede su cui transitavano.

      «Celeste dote è negli umani—la corrispondenza d’amorosi affetti», dice Foscolo, che segue le anime elette, sacerdotesse dell’amore celeste sino oltre tomba.

      L’occhiata d’un perverso che vi fa l’effetto di una punta di stile, sarà dunque l’antitesi di quella dote e la potremo chiamar: dote infernale.

      E tale fu veramente l’effetto di quell’occhio sulla bellissima fanciulla romana.

      Riconfortata alquanto da quel primo scompiglio dell’esser suo—e tornata alla virile sua natura, Marzia era lì per consigliar l’amica di tornare verso il campo—ma voltandosi e scorgendo lo stesso individuo con altri, senza dubbio della stessa risma, che le seguivano, disse a Lina, senza rispondere al «cosa hai?» dell’amica, «sollecitiamo».

      Scivolavano quindi le tre giovani sul selciato del marciapiede di Piazza reale colla velocità e leggerezza della Silfide—ma nella popolosa Toledo a quell’ora facea mestieri rompere la folla per poter proseguire celeremente, e la folla trovavasi sempre più densa a misura che s’inoltravano verso il centro della città.

      Tutto ciò dava vantaggio ai persecutori, sulle giovani perseguite, che di più inciampavano nel non indifferente ostacolo che incontrano le belle donne nelle città grandi, quando non accompagnate da uomini, cioè: lo esser bersaglio alle occhiatine, ai motteggi, e sovente alla persecuzione de’ cicisbei.

      Comunque, le tre compagne non eran ragazze da lasciarsi spaventare per poco, e la stessa Marzia sul di cui volto era improntata abituale malinconia—e che forse s’era aumentata col sinistro incontro—Marzia, dico, avea ripreso quel fiero contegno cui dava diritto l’indomito suo coraggio.

      A gente più assuefatta a mene poliziesche delle belle fanciulle, sarebbe forse venuto in mente di non fermarsi in quell’albergo di prim’ordine, oppure giungendovi, fare in modo di uscire subito da un andito posteriore che conduceva alla splendida passeggiata sul mare, e di là cercare una più modesta ed appiattata dimora. A Lia però, che la faceva da guida, non occorsero tali considerazioni, e forse anche qualche motivo particolare la induceva a prender stanza in detto albergo. La noncuranza poi delle nostre eroine per qualunque pericolo coadiuvò la scelta di tale dimora—non sicura certamente per esse in quel tempo di parossismo rivoluzionario da una parte e di paura governativa dall’altra.

      Il fatto sta che appena le tre fanciulle avean messo piede nella stanza richiesta ed a loro assegnata dal padrone di casa, questo si presentò ad esse con un commissario di polizia e tre birri dicendo loro: «Signore, io era venuto per chiedere ciò che desideravano per cena; la comparsa però e l’intimazione di questi signori (la seconda parte del discorso fu a voce bassa ed arrugando le labbra), mi duole dirlo, farà inutile la mia richiesta».

      Quelle parole aveano un accento di simpatia, e si capisce con quel colpo d’occhio intelligente che distingue i nostri meridionali, il padron di casa avea indovinato che le belle viaggiatrici eran gente di conto—e bastava per ciò gettar uno sguardo sul distinto, nobile e vezzoso volto delle due compagne dei Mille.—La Lia, di bellezza non comune, pure era conosciuta in quella casa.

      Anche si capisce l’istantaneo apparir della polizia borbonica in quei giorni di terrore, ove in Palermo si era concentrata quasi tutta quella del Regno, coadiuvata da quanto il gesuitismo avea di più astuto e di più diabolico.

      L’uomo dall’occhio sinistro la di cui vista avea sì stranamente e malignamente magnetizzato la nostra Marzia, avea quindi durato poca fatica a raccoglier sgherri sufficienti per la cattura delle fanciulle sospette.

      L’Albergo d’Italia attorniato dalla birraglia, quei birri che col commissario aveano invaso la stanza delle donne e tre carrozze già occupate da custodi pronti al portone, furono gli apparecchi idonei per il trasporto delle tre donne a Castellamare, ove le lasceremo per un pezzo, dolenti del mal esito della loro impresa—ed indispettite.

      «Cozzo» fu la sola parola che Lia potè articolare al padrone di casa in un momento in cui i poliziotti stavan concertandosi sulle grandi misure da prendere per assicurare la famosa preda.

      NOTE:

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      [13] Mi è successo in America, coricandomi sul campo colla testa su di un cespuglio erbaceo, di esser costretto a cambiar di giaciglio per l’apparizione di due luci nello stesso, che appartenevano certo ad un serpe.

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       IL TENTATORE.

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      Les prêtres ne sont pas ce qu’un vain peuple pense.

       Votre crédulité fait toute leur science.

      (Voltaire).

      Quando le scritture—che gli stupidi ed i furbi chiamano sante o sacre—collocarono allato della coppia primitiva il serpente per tentare la prima debole donna, esse avrebbero dovuto a tante invenzioni aggiungere l’invenzione d’un prete invece del rettile, essendo il prete il vero rappresentante della malizia e della menzogna—più atto assai alla corruzione e al tradimento che non lo schifoso e strisciante abitatore delle paludi.

      E qui mi pongo


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