I Mille. Garibaldi Giuseppe

I Mille - Garibaldi Giuseppe


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il mare africano, ov’eran aspettati dai prodi della flotta per esser condotti in quei certi ergastoli di S. Stefano e Favignano, che i patriotti dell’Italia Meridionale ben conoscono, oppure per essere appiccati ai pennoni di detta valorosa flotta: ricompensa generalmente assegnata ai pirati o filibustieri, simili ai Mille, che si occupano di disturbar l’ordine sì ben mantenuto dalle monarchie in generale e dalle italiane in particolare.

      Fra poche ore noi avremo un cenno certo della veritiera loquacità dei dispacci governativi, che per la decima volta avean mangiato i Mille od annientati.—Bosco e Van Michel avean bensì raggiunto, verso Corleone, l’artiglieria nostra comandata dal generale Orsini, che con pochi invalidi la difese valorosamente, ed a cui tolsero, credo, un pezzo inutile. Ma la colonna principale dei Mille, prendendo a sinistra per Marineo e Misilmeri, giunse a Gibilrossa, ove il generale La-Masa avea riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò la famosa marcia di notte per sentieri asprissimi sulla capitale dei Vespri presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe dell’esercito borbonico.

       Indice

       ANCORA IL TENTATORE.

       Indice

      Quel sottile velen—che nel virgineo

       Cuore s’instilla—e paradiso umore

       Ti sembra—E poi micidïali e tetre

       Le miserie del mondo a te dischiude.

      (Autore conosciuto).

      Era la una della mattina, nel fatale 27 maggio del 60, e qualche cosa di fatale veramente pesava nell’atmosfera.—Tu ne sentivi la soma e ne andavi irrequieto.—Non era, come abbiam detto, l’alito appestato del Simoùn[15], giacchè venti non se ne sentivano.—Afa?—non la so descrivere!—Io l’ho sentito però quel fatale mal essere, perchè anch’io in quella notte che precedeva un giorno di tempesta popolare contro la tirannide, anch’io respiravo l’atmosfera di Palermo e l’ho respirata coll’ansia di scorger l’alba che io bramavo—come la presenza della fanciulla amata—e che presentivo liberatrice.

      Se soffocati dal malore noi, all’aria aperta, e marciando a dovere santo—a liberazioni di schiavi—che non soffrirebbero in quella pesante notte i rinchiusi nell’afa micidiale di un carcere?

      In Palermo certo i dormenti eran pochi. E i detenuti?—molti! Gl’infelici precipitati nel fondo delle loro bolgie—senza colpe—e sostenuti solo dall’intemerata coscienza, languivano privi d’alimenti e d’un soffio d’aria libera!

      Tiranni! a che tanto chiasso coi vostri cagnotti, se lo schiavo—raramente, ma però qualche volta—dopo di aver tastato i solchi troppo profondi che incisero i vostri ferri nelle sue carni, vi scaraventa sopra un palco che si chiama guigliottina o nei fossi delle casematte di Queritaro? Voi!... che tanto faceste e fate soffrire l’umana famiglia di umiliazioni, di torture e d’omicidii!

      Ed eran rinchiusi nelle celle della tirannide le nostre eroine, che lasciammo nelle mani della polizia all’Albergo d’Italia.—Rinchiuse nelle carceri più recondite dell’ergastolo di Castellamare—esse morivano di quella morte lenta, lenta, che appassisce, appassisce sino ad inaridire e troncare l’esistenza più florida e più robusta.

      Esse furono prive del consorzio e divise ciascuna nella sua cella. Gl’interrogatorî di queste famose delinquenti dovevano essere presi a parte. Il despotismo nulla ignora di questa morte morale delle anime: l’isolamento e le torture dello spirito.

      Il selvaggio cavallo delle Pampas, i suoi primi passi verso l’addomesticamento li fa con due giorni di corda corta e nessun alimento od acqua. Tali sono tutte le specie di padroni, e la tirannide ben conosce esser l’avvilimento dell’anima compagno dell’avvilimento del corpo.

      Era dunque la una della mattina del 27 maggio 1860, quando la cella della Marzia fu semiaperta e l’orrida figura del tentatore—che già abbiamo fiutato in Piazza Reale nel peristilio dell’Albergo d’Italia ed in fondo di una carrozza alla passeggiata pubblica sulla sponda del Tirreno—mostravasi alla derelitta.

      Orrida figura, dico, perchè sapeva scendere nei penetrali di quell’anima di Lucifero—e come Lucifero adorna di belle esterne forme.

      Tale era questo demone a cui natura era stata prodiga di favori per sventura dei suoi simili.

      E qui col ginocchio piegato davanti alla bellezza umana, io, vecchio e senza pretensione, devo un rimprovero o piuttosto un avvertimento alla donna: essa sarebbe assai meno infelice, se si occupasse un po’ più di discernere sotto l’involto d’un bell’uomo, l’anima di un Lucifero!

      Marzia trasalì, ebbe dei brividi—come le successe sul marciapiede di Piazza Reale—riconobbe nell’ombra le sembianze del suo tentatore, e sull’impeto primo essa fu per lanciarsi contro di lui e sbranarlo.

      «Marzia!» esclamò il Gesuita. «Marzia» ricominciava il prete, e quella voce risvegliando forse nella memoria della fanciulla chissà quali reminiscenze, essa ricadde sul suo lettuccio con immobilità disperata, «io sono venuto a liberarti, e tu sarai libera in questo momento, se vorrai seguire i miei consigli.

      «I tuoi sono consigli di Satana» rispondeva la giovine rinvenuta dalla prima impressione e ritornando al suo essere eroico, «via, tentatore nefando, l’esistenza mi pesa solo per aver avuto la sventura di conoscerti. E la libertà, per cui io darei cento vite, datami da te la calpesterei come orribile dono, e me ne servirei soltanto per uscir da una vita che tu hai reso infame.

      «Eppure io t’ho salvata da una fede di perdizione, Marzia, e t’ho posta sulla via del Signore e della santa sua Religione.

      «Sappi, impostore, per confusione tua, ch’io tornai col pentimento alla fede d’Israele, alla fede dei miei padri. Solo alla mia innocenza io non potrò tornare—scellerato!—E tu ben lo sai; e sai quanti raggiri, quante menzogne e seduzioni tu adoperasti per ingannare una giovinetta tredicenne—prostituirla, e, quando sazie le tue libidini, chiuderla in uno di quei postriboli da voi chiamati conventi, per isbarazzartene.

      «Via, assassino dell’anima! la tua presenza mi è mille volte più insopportabile di questo duro carcere».

      A queste parole Marzia s’era rialzata, e l’occhio suo scintillava nell’oscurità come quello della tigre.—Il Gesuita, con una lanterna sorda nella sinistra, teneva colla destra la posterla semiaperta, pronto a chiuderla in caso che la fanciulla si fosse precipitata su di lui—azione di cui la credeva capace.

      E veramente, dopo aver misurata la distanza collo sguardo, concentrate le spossate sue forze, Marzia fu d’un balzo contro la porta, che trovò chiusa dalla robusta mano del prete, ed il malvivente fu sollecito a dar un giro di chiave per non esporsi una seconda volta all’assalto della fanciulla.

      Egli però aprì poco dopo una graticola da dove probabilmente si conferiva coi prigionieri pericolosi, e da dove vi si faceva passare il miserabile alimento.

      «Marzia!» ripigliò la voce stridula del loiolesco, «il vecchio tuo padre...»; qui si udì uno di quei lamenti che non si ponno descrivere, e che l’antico fondatore della lingua italiana si contenta di accennare con quei suoi versi immortali:

      E se non piangi, di che pianger suoli!

      Non era il rantolo del morente, ma uno di quegli accenti di dolore che noi uomini non conosciamo, o di cui non racchiudiamo il tesoro. Solo la donna e forse solamente la madre, il di cui cuore è il vero santuario dell’amore, è capace di sì incomparabile dolore!—Ed il tonfo del corpo di Marzia stramazzante si udì nel fondo della cella.

      Un sepolcrale silenzio seguiva, e solo quando l’impassibile ministro dell’inferno s’accorse che la vittima sua non era preda della morte, esso ricominciò: «Marzia! il vecchio tuo padre, lo sai, giace


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