Ben Hur: Una storia di Cristo. Lew Wallace
meravigliato della parafrase della sua esclamazione di poc'anzi. — «Ma attendiamo — aggiunse — attendiamo: l'altro viene laggiù.» —
Si volsero verso il nord ov'era già in vista un terzo cammello, bianco come i precedenti, e che s'avanzava dondolandosi come una nave in alto mare.
Attesero, rimanendo vicini l'uno all'altro e silenziosi, finchè giunse il nuovo viaggiatore che discese ed avanzò ad incontrarli.
— «Pace a te, o mio fratello» — egli disse mentre abbracciava l'Indiano. E l'Indiano rispose: — «Sia fatto il volere di Dio!» —
L'ultimo arrivato non rassomigliava affatto ai suoi amici; la sua persona era più snella; la carnagione bianca; un volume di capelli chiari ondulati coronava la sua testa piccola ma bella, e i suoi grandi occhi neri davano segno di molta intelligenza, di natura sincera e di un carattere forte.
Aveva il capo scoperto ed era privo di armi. Sotto le pieghe della coperta bianca, ch'egli indossava con grazia, appariva una tunica scollata e dalle maniche corte, fermata alla vita da una cintura che gli scendeva quasi fino alle ginocchia, lasciando nudi il collo, le braccia, e le gambe. I piedi calzavano dei sandali. Aveva cinquant'anni e forse anche di più ma non li dimostrava. Gli anni avevano dato solo una certa austerità al suo contegno e una certa moderazione alla sua parola, ma non gli avevano aggrinzito il viso o imbiancati i capelli.
Aveva un fisico robusto e un'immensa intelligenza. Non fa mestieri il dire di che paese egli fosse: s'egli non era di Atene dovevan essere Greci per lo meno i suoi antenati.
Quando l'Egiziano ebbe terminato di abbracciarlo disse con voce tremula:
— «Iddio mi fece arrivare qui per il primo; quindi io so di essere scelto come ospite dei miei fratelli. La tenda è al suo posto e la tavola è preparata per noi. Lasciatemi esercitare le mie mansioni.» —
Prendendoli per mano li fece entrare; tolse loro i sandali, lavò loro i piedi, e gettò dell'acqua sulle loro mani, ch'essi quindi asciugarono con salviette.
Poi, dopo aver lavate anche le proprie mani, egli disse;
— «Bisogna aver cura della nostra persona, fratelli, come lo richiede il nostro ufficio, e mangiare per renderci forti onde compiere il nostro dovere durante il rimanente della giornata. Mentre mangeremo impareremo a conoscerci vicendevolmente, e ci diremo l'un l'altro i nostri nomi, le nostre patrie, e i nostri intenti.» —
Li accompagnò al posto che aveva loro destinato e li fece sedere in modo che si potessero trovare di fronte.
Contemporaneamente le loro teste si chinarono, le loro mani s'incrociarono sul petto, ed essi recitarono, in coro, ad alta voce, questo semplice ringraziamento:
— «O padre dell'Universo, o nostro Dio! Tutto quello che abbiamo qui è tuo; accetta i nostri ringraziamenti e benedicici, perchè possiamo continuare sempre ad agire secondo i tuoi desideri.» —
All'ultima parola essi alzarono gli occhi e si guardarono in faccia meravigliati. Ognuno di loro aveva parlato in una lingua sconosciuta agli altri; eppure tutti e tre avevan compreso perfettamente ciò che s'era detto. Le loro persone tremarono per l'emozione, perchè, dal miracolo, essi dicevano di riconoscere la presenza divina.
CAPITOLO III.
L'incontro di cui sopra avvenne nell'anno di Roma 747. Si era nel mese di dicembre e l'inverno regnava sopra tutte le regioni orientali del Mediterraneo.
Quelli che attraversano il deserto in questa stagione non possono proseguire molto tempo senza sentirsi presi da un grande appetito. La compagnia sotto la piccola tenda non faceva certo eccezione alla regola. Aveva molta fame e quindi mangiava di gusto; dopo che fu mesciuto il vino i tre principiarono a discorrere.
— «Nulla riesce di più gradito ad un viaggiatore del sentirsi chiamare per nome da un amico in paese sconosciuto» — disse l'Egiziano che aveva voluto esser l'anfitrione del pasto.
«Resteremo molti giorni insieme e sarebbe ora d'incominciare a conoscerci. Così, se vi aggrada, l'ultimo venuto sarà il primo a parlare.»
Principiando pian piano, come un individuo prudente, il Greco incominciò:
— «Quello ch'io ho da dire, fratelli, è così strano che non so proprio donde principiare e in qual guisa parlar correttamente. Io non capisco ancora me stesso. Son tanto sicuro che ciò che sto facendo, sia ciò che vuole il maestro, che il servirlo è per me una costante estasi. Quando penso allo scopo cui debbo adempiere provo una gioia così grande che riconosco essere ciò il volere divino.»
Il buon uomo si fermò, incapace di proseguire, mentre gli altri, come lui, abbassarono gli occhi.
— «Nel lontano Occidente — proseguì — vi è un paese che non potrà mai esser dimenticato. Il mondo gli deve troppo ed il potersi sdebitare è cosa che arreca all'uomo un grande piacere. Non parlerò di belle arti, di filosofia, d'oratoria, di poesia, di guerra. O miei fratelli, la gloria è quella che splenderà luminosamente, e, per mezzo di essa, Colui che noi cerchiamo sarà conosciuto su tutta la terra. Il paese di cui vi parlo è la Grecia. Io sono Gaspare, figlio di Cleonte, ateniese. I miei antenati si dedicarono interamente allo studio, e da essi io ho ereditata la stessa inclinazione. Due dei nostri filosofi, i maggiori, insegnano, l'uno, che esiste un'anima in ogni uomo, e ch'essa è immortale, l'altro che vi è un Dio solo il quale è infinitamente giusto. Io scelsi fra le molte teorie quelle dei due filosofi come le sole degne di attenzione, giacchè mi pareva che vi potesse essere un legame sconosciuto fra Dio e l'anima. Su questo tema la mente può discutere fin ad un certo punto ma poi trova una barriera insormontabile, giunti alla quale si è obbligati a chieder aiuto. Così feci ma non ebbi alcuna risposta. Disperato mi allontanai dalle scuole e dalle città.» —
A queste parole l'Indiano ebbe un sorriso di approvazione.
— «In Tessaglia, verso settentrione, — continuò il Greco — v'è una catena di montagne famosa per esser riputata dimora degli Dei, chiamata l'Olimpo, dove Zeus, ch'era considerato il sommo di essi dai miei compatrioti, abitava. — Andai sulla vetta di quelle montagne. Trovai una caverna nel monte, dove la catena, che principia ad occidente, piega a sud-est, e là mi fermai abbandonandomi a meditare, anzi no, mi abbandonai attendendo, sapendo che ogni sospiro era una preghiera, una rivelazione. Credendo in Dio, invisibile ma supremo, credevo anche che, qualora io mi fossi commosso, egli avrebbe avuto compassione di me e mi avrebbe risposto.»
— «Ed egli rispose! ed egli rispose!» — esclamò l'Indiano alzando le mani dalla pezza di seta che teneva sulle ginocchia.
— «Ascoltatemi, fratelli» — disse il Greco calmandosi con difficoltà — La porta del mio eremitaggio guardava verso il mare sopra il golfo di Thermaic. Un giorno vidi cader da un battello che navigava non molto lontano, un uomo. Egli nuotò verso la riva. Io lo raccolsi e ne presi cura. Era un Ebreo, sapiente nella storia e nella legge del suo popolo; da lui appresi come esistesse davvero il Dio delle mie preghiere e come avesse composto le sue leggi e fosse stato per secoli padrone e re degli Ebrei. Ciò non era forse la Rivelazione di cui avevo sognato? La mia fede mi aveva fruttato. Iddio mi aveva risposto.» —
— «Com'Egli risponde a tutti quelli che lo implorano con tale fede!» — disse l'Indiano.
— «Ma ahimè! esclamò l'Egiziano, vi son pochi saggi abbastanza per capire quando egli risponda!» —
— «Questo non è tutto — continuò il Greco. — L'uomo che mi è stato inviato mi ha detto di più. Disse che i profeti, che nell'epoca che seguì la prima Rivelazione passeggiavano e parlavano con Dio, dichiararono ch'egli sarebbe ritornato. Mi diede i nomi dei profeti e dei libri sacri e mi citò le loro parole. Mi disse anche che la seconda venuta era vicina ed attesa da un momento all'altro in Gerusalemme.» —
Il Greco si fermò e il suo viso si rabbuiò.