Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili
a mezzo il corso del gran fiume, sorge una città, la più vasta che il mondo abbia veduta mai, edificata da Nemrod, figlio di Cus, potente cacciatore al cospetto di Nebo, insieme con le genti scampate dall'acque, prima che, a guisa di rena travolta dal turbine, si sperdessero sulla faccia della terra. Però il nome suo fu Babilu, che significa la porta di Ilu, il dio del diluvio, e la sacra città si ristrinse da principio sulla sponda destra del fiume, intorno a Barsìpa, la gran torre delle lingue, che gli edificatori suoi aveano lasciata a mezzo, confusamente favellando, sbigottiti dal tremuoto e dalla folgore. Così Nebo, il Dio che genera sè stesso, il dominatore che comanda alle legioni del cielo e della terra, avea custodita l'azzurra sua sede contro le audaci imprese dei figli dell'uomo[1].
Quindici età sono di poco trascorse sotto la grand'ala di Nisroc, e già l'ampliata Babilonia, tempio e dimora de' sommi Dei, si estende sui due lati del fiume, cui sembra ella stringere tra le braccia amorose, come giovine donna lo sposo che la ricolma d'ebbrezza. A lei non ardisce paragonarsi Ninive pur dianzi edificata da Assur, la quale attenderà lungamente ancora il suo Tiglat Pileser, il fortunato monarca che la porrà a capo del grande impero d'Assiria. Sippara, l'antidiluviana, Ur de' Caldei, Larsa, Calneh ed Erech, dense di popolo, felici di arti e di traffichi, non risplendono intorno a lei che come i pianeti intorno al sommo datore di vita e di luce, il cui tempio e il simulacro ella accoglie nel suo venerato recinto.
E qui, sotto lo scettro poderoso dei discendenti di Nemrod, si raccolgono quattro schiatte, i Sumir aspro favellanti, gli Accad gelosi custodi della scienza arcana de' cieli, i Turani discesi al piano per mezzo alle tribù fraterne dei Medi, gli avanzi della stirpe di Sem, cacciata più su, dal conquistatore cussita, a metter dimora sulla terra di Nahraim. Nè solo la vasta pianura obbedisce al glorioso popolo di Kiprat Arbat, o delle quattro favelle; anche sulle alture, e per le chine di là dai monti, il valore di Nino estese l'imperio di Babilu; e pur dianzi, la fortuna di Semiramide spaziò dal lido di Tiro alle convalli della Bakdiana, dalla terra degli aromi cui bagna l'Eritreo, fin oltre alle sorgenti dell'Eufrate e del Tigri. Curvarono il capo le vinte nazioni; i principi lontani furono astretti a tributo.
I più tra costoro lo pagavano di buon grado. Scendevano essi riverenti e stupiti a Babilonia, come alla città sacra, domatrice del mondo. Era così maestosa la dimora de' sommi Dei! Ed era così splendida la reggia della gran vedova di Nino! Omaggio prestato a donna non umilia i nati di donna, e Semiramide, per la sovrumana venustà delle forme, piuttosto accresciuta che scemata dal corso degli anni, appariva cosa di cielo, anzi che frutto di mortale connubio. E invero, non tanto per cingere d'una poetica nube un oscuro natale, quanto per aggiunger luce ad una bellezza che facilmente si potea creder divina, i sacerdoti di Barsìpa avean letto negli astri esser costei la figliuola di Derceto, della gran dea d'Ascalona, fin da quel giorno che Nino, perdutamente invaghito di lei, la tolse al primo marito, per farla regina del suo cuore, arbitra e donna del più gran trono della terra.
Ed ella oramai, estinto il consorte, regnava sola, temuta e felice. A' suoi cenni la città s'era ampliata, cinta di mura, ornata di sontuosi edifizi. Due milioni d'uomini avevano lavorato per lei; gli uni a scavare il suolo, gli altri a foggiare in mattoni l'argilla smossa, altri ancora a trarre il bitume dalla vicina terra di Is. Anzitutto s'innalzan le mura, ampie, valide alla difesa e maravigliose alla vista. Nivitti Bel, il recinto interno, è lungo trecento sessanta stadii, alto cinquanta cubiti, largo diciotto; Imgur Bel, il baluardo esterno, gira quattrocento ottanta stadii, si leva novanta cubiti sull'ampia fossa che lo circonda, e, sullo spalto di cinquanta che lo incorona, sorge una doppia fila di torri, per mezzo alle quali è libera la via ad una quadriga scorrente. Queste mura, ne' cui fianchi si aprono cento porte di bronzo, son di mattoni, una parte acconciamente disseccati, l'altra cotti in fornace; e ad ogni trenta strati di mattoni s'alterna uno spesso graticciato di canne, intrise nei bitume, sporgenti oltre la superficie del muro, di guisa che la rossiccia mole appare da lunge vagamente listata di nero.
Il biondo Eufrate scorre nel mezzo; epperò le mura, giunte al confine dell'acque, si volgono ad angolo, si rimpiccioliscono e s'assottigliano in forma di parapetti, lunghesso i margini bastionati del fiume, su cui vengono a mettere, per altrettanti sbocchi, le vie della città, ampie e diritte, tutte a riscontro delle cento porte di bronzo. Sui lati di queste vie, frequenti di popolo, si alzano le case a tre o quattro piani, spaziose, non contigue tra loro, ma frammezzate da giardini e da piazze. Sulla riva destra è la città sacerdotale, col suo tempio di Belo, alta piramide di sette piani, dipinti dei sacri colori delle sette luci della terra, dalla cui cima Belo, il gran dio di Babilonia, contempla la sua diletta città. Sulla riva sinistra è la reggia, chiusa da un muro ornato di stupende pitture, sormontata da terrazzi e pensili giardini. Congiunge le due rive un ponte, lungo cinque stadii, sorretto da pile profondamente piantate nell'alveo dell'Eufrate. Son esse di pietre strettamente congiunte da ramponi di ferro, saldati col piombo, e le facce esposte alla correntìa del fiume appaiono stagliate ad angolo acuto. Il ponte, venti cubiti largo, è un tavolato di cedri e cipressi, sostenuti da enormi tronchi di palma.
Tanto ha potuto far Semiramide, ed altro ancora, chè braccia di manovali non poteano mancare alla conquistatrice della Fenicia e della Bakdiana, donde eran venute dietro al suo cocchio di guerra così lunghe file d'incatenati prigioni. In quella guisa che le mura della città, i templi, i giardini, narrano la sua magnificenza ai venturi, l'Eufrate, rattenuto da argini poderosi pel corso di molte giornate, a giuste distanze sviato in ampii canali navigabili, partito in migliaia di rivi a benefizio dei campi, addimostra le cure sapienti della regina per la felicità del suo popolo. Epperò ella potrà, senza menzogna, scrivere lungo le mura della sua reggia questi nobili vanti:
«La natura mi diè forme di donna, ma le mie geste m'hanno agguagliata al più forte tra gli uomini. Io tenni sotto la mia legge l'impero di Nino, il quale non è conterminato ad oriente che dal fiume Indo, a mezzogiorno dalle regioni dell'incenso e della mirra, a settentrione dai Sogdiani e dai Saci. Prima che io fossi, niuno dei Babilonesi avea visto il mare; io quattro ne vidi, e così lontani, che il giungervi non era dato ad alcuno. Costrinsi i fiumi a correre dov'io volli, nè il volli, se non dove tornasse utile alle mie genti. Fecondai le sterili pianure; murai cittadelle inespugnabili; tra roccie impraticabili, apersi sentieri col ferro; ampie strade si schiusero ovunque io passai, e i miei carri sonanti trascorsero dove pur dianzi duravan fatica le fiere. E tra queste opere, rinvenni ancora il tempo da consacrare ai sollazzi, agli amici.»
Così posava la regina dalle aspre fatiche di guerra, tra le splendidezze della sua città e le dovizie che versavano ogni giorno a' suoi piedi la natura e l'industria delle soggette nazioni. Per lei l'Arabia felice stillava gli aromi; per lei Tiro intesseva i candidi lini e li tingeva nei più vividi colori della porpora; per lei la Media educava i cavalli veloci come il vento, e l'India i poderosi elefanti. Era il secol d'oro per la stirpe degli Accad, innanzi che scendessero alle prime vendette i figli di Javan, prodi in armi e numerosi nei troppo ristretti confini, che per poco ancora dovean mordere il freno della servitù, mentre il loro Zerduste, il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acuto, ospite tributario della fortunata regina, indarno tentava di piacere alla donna.
Ma la nube precorritrice delle tempeste non era anche apparsa sul limpido cielo di Babilonia; vigilavano ancora a sua custodia i sommi Dei; Ilu, il gran nume senza tempio, nè altari, poichè la città stessa era l'altare, e tempio tutta la grande pianura fecondata da lui; Nebo, il signore della vôlta azzurra; Belo, il dator della luce; Ao, il pesce dio, che recò la prima civiltà dai flutti del mare; Sin, il rischiaratore delle notti; Militta, o Derceto, o Rea, secondo i luoghi, la Venere genitrice, la gran madre dalle cento mammelle, il cui sacro bosco e i riti notturni chiamavano a Babilonia adoratori in gran numero.
E la terra di Sennaar tutti liberalmente nutriva, non meno ferace di quella che il gran Nilo inonda delle sue piene; imperocchè vi cresceano spontanei la palma, il melagrano, l'orzo ed il sesamo; il grano rendeva duecento volte la semente, talfiata anche trecento, e la messe ogni anno era doppia, come sulla terra di Mesraim. Lunghesso l'Eufrate vorticoso, i cui margini erano continuamente solcati da carri pesanti, spaziava una pianura così vasta, che l'occhio non potea misurarne i confini, tutta biondeggiante di biade alla vampa del sole. Di tratto in tratto, come isole sorgenti dall'aureo mare delle mobili spiche, s'innalzavano con agili tronchi le palme, si piegavano ad ombrello su popolosi villaggi, composti di case tonde, dalle pareti di legno, dai tetti conici e dalle porte alte,