Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili
dei capi loro, i pubblici edifizi, i templi degli Dei, si ravvisavano agevolmente alla forma quadrangolare, alla costruzione in mattoni, ora soltanto disseccati, ora cotti al fuoco e smaglianti per una densa vernice d'un verde carico. Le città, disseminate sul piano, si scorgevano in lontananza, coi loro alti terrazzi biancheggianti e le loro torri massiccie a vasti ripiani. Il verde vivo dei colti e dei pascoli appariva rotto qua e là da innumerevoli linee biancastre, argini dei cento canali derivati dall'Eufrate e condotti a metter foce nel Tigri; liquidi sentieri su cui viaggiavano, rapide siccome la corrente voleva, portando carichi di grano e di frutte, quelle barche a foggia di scudo, intessute di vimini, coperte di cuoio e spalmate di asfalto, che poi, giunte alla meta, erano disfatte, e, venduta l'armatura di legno, il nocchiero se ne tornava pedestre, con le sue pelli sul capo, o sulla groppa d'un somiero, portato seco nella barca, fino al villaggio lontano. I viandanti, ond'erano popolate le strade e i villaggi lunghesso il fiume, indossavano una lunga tunica di tela, su cui una più corta di lana colorata e un bianco mantello svolazzante dagli omeri. Una corta mitra, ravvolta di bianca fascia, ratteneva le lunghe capigliature intrecciate; i piedi avean chiusi in sandali di cuoio, e tra mani portavano lunghi bastoni ornati di leggiadre sculture, quali raffiguranti un giglio, o una rosa, quali un leone, un'aquila, od altra foggia d'animali. Dappertutto l'abbondanza, la ricchezza e la vita; dappertutto le liete sembianze della fortuna d'un popolo, le cui mura, i baluardi, le piramidi e le torri, grandeggiavano sull'orizzonte, tinte di porpora e d'oro dai raggi d'un sole maestoso, che avea varcato di parecchie ore il meriggio.
Questa scena mirabile venia contemplando, con occhio tra curioso e triste, un giovine cavaliero, che scendeva lentamente, seguìto da numerosa schiera e da salmerie ragguardevoli, lungo la riva destra del fiume. Già il convoglio aveva oltrepassato Is, il villaggio posto alla foce della fiumana d'asfalto; già aveva lasciato sulla sua sinistra le antiche torri di Sippara e la vasta apertura del Nahr Malka, canal regio, da poco tempo scavato tra l'Eufrate ed il Tigri; e Babilonia, mostrandosi in tutta la sua pompa colossale al forastiero (chè tale lo chiarivano i biondi capegli e le azzurre pupille, più assai che la strana foggia del vestimento e dell'armi), gli chiamava sul volto quell'aria di ammirazione ad un tempo e di tristezza, che abbiamo notata pur dianzi.
Fin dai primi albori del giorno, la gran città gli era apparsa alla vista, sull'estremo confine dell'orizzonte. E da quell'ora una strana impazienza signoreggiava l'animo del giovane condottiero; però la cavalcata volgea più spedita, e più brevi erano state le soste, quantunque già gli ardori del sole si facessero sentire più molesti, consigliando le carovane a batter le polverose strade di nottetempo, pe' silenzi dell'amica luna, che giungeva allora al suo colmo. Egli era in sul finire del mese di Sirvan, che è il terzo dell'anno dei Babilonesi, computandone essi il principio dal giunger di primavera, allorquando lo sciogliersi delle nevi sui monti di Armenia fa crescere a dismisura l'Eufrate. Ora nel mese di Sirvan s'è già scemata la piena, e la vampa del sole, che matura le spiche sui gambi frondosi, consente di foggiare a mattoni l'argilla per la costruzione delle case; donde esso è chiamato eziandio il mese del mattone dalle genti di Sennaar.
Era egli così desideroso di giungere in Babilonia, il giovane cavaliero? E gli sguardi, or curiosi, or mesti, ch'egli volgeva d'intorno, che significavano essi? Una strana mistura di contrarie sensazioni gli traspariva dal volto. Talfiata, sviando gli occhi dalla meta del suo viaggio, si faceva a contemplare l'Eufrate, seguendo con fanciullesca curiosità le zattere galleggianti, coperte d'un bianco tendale, cariche di anfore, in cui si chiudeva l'inebbriante liquor della palma, lentamente condotte da uomini armati di lunghe pertiche, le quali scendevano con metro alterno a pigliare la spinta dal letto del fiume. Più oltre erano viaggiatori di povero stato, i quali, per cansare la fatica pedestre e il polverìo delle strade battute, con la lor tunica e il cappello piegato a mo' di turbante sul capo, scendevano la corrente, aggrappando le braccia intorno a un otre gonfiato. Altrove erano donne, facilmente riconoscibili al bianco drappo che copria loro la testa e il collo, agili e destre nuotatrici, che con una mano si reggeano a fior d'acqua, e sull'altra, obliquamente protesa in alto, e sulla eretta cervice, recavano canestri di frutte, o scodelle di latte, a refrigerio dei viandanti.
Lieto spettacolo, che pure non rallegrava a lungo l'aspetto del giovine. Ad ogni tanto gli si offuscavano gli occhi, sotto l'arco delle sopracciglia aggrondate, come se un doloroso ricordo venisse improvvisamente a trafiggerlo. E lo assaliva un brivido, come fosse il terrore delle cose ignote; le sue labbra mormoravano un nome amico, e il cavallo nitriva, s'impennava, fremeva, sotto le repentine scosse del suo mutevol signore.
Teneva a lui dietro il corteo, grave, misurato, e, a dimostrazione d'ossequio, non ricambiando che sommesse parole. Perfino Bared, il suo fidato Bared, che di pochi passi precedea l'ordinanza, cavalcando quasi a paro di lui, da lunga pezza non aveva aperto bocca, per tema d'interrompere il corso de' suoi arcani pensieri.
Alla svolta d'una macchia di lentischi, che copriva largo tratto di terreno sopra una delle frequenti insenature del fiume, si parò dinanzi ai loro occhi un colmo di case, tutte di più cittadinesca apparenza, con mura merlate e siepi fiorite di giardini, che fiancheggiavano la strada maestra.
Era quello uno dei sobborghi di Babilu, braccia poderose che la città regina stendeva all'intorno, rivi capaci in cui traboccava il soverchio della sua vita gagliarda. Sulla vasta piazza, donde aveva principio il sobborgo, sostava una grossa mano di cavalieri babilonesi, belli a vedersi per le loriche e gli schinieri di cuoio, su cui svolazzavano i lembi dei candidi mantelli; colle lancie ritte sulla staffa, gli elmi a cono aguzzo rilucenti sul capo, le mazze ferrate pendenti all'arcione. Intorno ad essi, uomini e donne della terra, con idrie e guastade tra mani, mescevano agli assetati i succhi del melagrano stemperati nell'acqua, in ciotole di argilla.
Il giovine capo si fermò nel mezzo della via; a rispettosa distanza i seguaci; le salmerie del pari, in lungo ordine dietro a costoro. I cavalli delle due schiere si salutarono con sbuffi e nitriti.
Alla vista dei sopravvegnenti, i babilonesi si erano tosto rimessi in ordinanza. Uno di costoro, il comandante, notevole al balteo frangiato d'oro, si fece innanzi a galoppo. Bared, pigliati i comandi del suo signore, s'inoltrò alla sua volta.
— Chi è lo straniero, — dimandò il babilonese a Bared, — che cavalca innanzi alla vostra schiera, come principe a capo delle sue genti?
— Non conosci tu il re d'Armenia, — disse Bared a lui di rimando, — Ara, il figlio di Aràmo, della stirpe d'Aìco?
A queste parole il babilonese inchinò la fronte sulla criniera del suo cavallo, nell'atto che volgeva a terra la punta della sua spada ricurva.
— Bene dovevo io argomentarlo, — rispose egli, — poichè il suo volto è pari a quello d'un Dio, e nelle sue pupille Nebo ha diffuso, come a prediletto figliuolo, il sacro colore della vôlta celeste. —
E sceso prontamente d'arcione, si fece incontro al cavallo del re, per tenerne, in segno di onoranza, le redini; indi soggiunse:
— Ben venga Ara il bello, il figliuolo di Aram, nel mese fortunato, nel giorno avventuroso, alle porte di Babilu. La gran Semiramide, cui Belo ha concessa la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui potenti della terra, attendeva impaziente il grazioso principe ed il suo nobil tributo.
— Non tributo, ma dono; — rispose prontamente il re d'Armenia, aggrottando le ciglia. — Babilonia è possente, ma la stirpe d'Aìco, più che dalla amicizia di Nino, dalle opere sue ripete il diritto di portar la benda di perle. Nemici da prima, e più e più volte alle prese, furono i padri nostri coi re della vasta pianura; amici ossequenti noi, non vassalli.
— E sia; — soggiunse l'altro arrendevole; — meglio amici ossequenti, che sudditi impazienti di freno. Ora ti piaccia, generoso signore, di venire alla stanza che la regina ti ha assegnata, a ristoro dalle fatiche del viaggio, innanzi di accoglierti in Babilonia, colla pompa che ad amico re si conviene. —
Il re d'Armenia non proferì verbo, in risposta all'ossequioso invito; ma con un lieve cenno del capo e con un gesto cortese, diè libertà al babilonese di risalire in arcione. Egli quindi già stava per toccare di sprone e ripigliare il cammino; ma non gliel consentivano le dimostrazioni cortesi degli abitanti del borgo, che s'erano accalcati sul suo passaggio, profferendo il vin della staffa ai