Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili
fregio di lucide squamme, corrente per lungo sotto una fila di spaziose finestre. Il grand'arco della porta metteva ad un ampio cortile, ne' cui fianchi si aprivano le stalle capaci, e gli alloggi de' soldati e dei servi. Al piano di sopra erano gli appartamenti del re e de' suoi uffiziali.
Discesi d'arcione, i seguaci del re d'Armenia si diedero con alacrità ai loro apprestamenti di riposo, ognuno secondo l'ufficio suo; i cavalieri a dissellare, stregghiare e rinfrescare gli affaticati destrieri; i custodi de' cammelli, i bagaglioni e i serventi, a riporre gli arnesi, le provvigioni e i preziosi fardelli; tutti, da ultimo, veduto come più nulla bisognasse ai fedeli compagni del loro viaggio, pensarono a ristorarsi di cibo, di bevanda e di sonno.
Seguìto di Bared, il giovine Ara s'avviò alle sue stanze. Due eunuchi della reggia erano ad aspettarlo colà, per additargli la camera adorna di sontuosi tappeti e morbide pelli di fiere, col suo letto di soffici piume steso nel fondo, sotto un padiglione di porpora. Lo guidarono essi allo spogliatoio, tutto fragrante di preziosi stillati, e al tiepido bagno, dove l'acqua spicciava dalle fauci d'un leone di bronzo nell'ampia vasca di pietra.
Ed essi, mentre il giovane signore attendeva a quelle cure, così geniali dopo le fatiche d'un lungo viaggio, apprestavano sulla mensa i cibi eletti, il vasellame lucente, l'acqua fresca come neve e l'inebbriante liquor della palma.
Ara uscì poco stante dal suo spogliatoio, fiorente di bellezza e di gioventù, raggiante al pari d'un dio. Lasciate le vesti polverose e le fogge natali, aveva indossata la doppia tunica babilonese, bianca di sopra con fregi d'oro sui lembi, e azzurra di sotto, siccome era azzurra la clamide, che portava ravvolta con bel garbo sugli òmeri. Azzurri i calzari, che gli saliano allacciati alquanto più su della noce del piede; bianca, con fregi d'oro, la mitra sul capo.
Quelle ed altre vesti in buon dato l'ospitalità regale di Semiramide apprestava al pronipote d'Aìco. Egli avea scelte le manco sontuose; ma come avrebbe potuto farle parere più umili? Bellezza e gioventù dànno luce più viva ed allegra che non gli ori e le gemme; aggiungono leggiadria, freschezza e splendore ad ogni cosa che le circonda.
— Invero, — disse Bared a lui, come lo ebbe veduto, — il babilonese ha ragione; chi non ti amerebbe, o signore?
— Ah! — rispose il principe con accento malinconico, rimirando le sue vesti mutate. — Così Sandi vestiva! Povero Sandi! —
E così dicendo si lasciava cadere su di uno sgabello, di rincontro alla mensa. Ma Bared non gli consentì questo ritorno alle tristi ricordanze. Erano soli e le ragioni dell'amicizia ripigliavano il sopravvento su quelle dell'ossequio.
— Suvvia, mio dolce signore, — gridò egli con voce affettuosa; — non lasciarti soverchiare dalla mestizia dei lontani ricordi. La vita è tale per tutti: luce e tenebre, sorrisi e lagrime, pur troppo! Schiavi al voler degli Dei, tutti ci attende la morte; mostriamoci dunque uomini forti davanti al destino!
— Oh, Bared, mio ottimo Bared, lo so; tutti morremo, un giorno! Ma poss'io dimenticare l'amico della mia giovinezza? Questa città è una tomba, dove Semiramide impera.
— Tu la vedrai domani; il babilonese te lo ha detto, nel prender commiato da te; a domani, dunque, i molesti pensieri. Vieni, mio dolce signore! Fino a domani ignoto in Babilonia, qual migliore occasione per veder la città? Vieni; ci aspetta il tempio di Militta Zarpanit; ci aspettano questi riti notturni, così famosi nel mondo. —
CAPITOLO II. Militta Zarpanit.
Tra Nivitti Bel ed Imgur Bel, nel tratto settentrionale di quella lunghissima zona di lieta verdura che corre tra i due baluardi, come diadema intorno alla fronte d'una regina, è il sacro bosco e il tempio di Militta Zarpanit, la gran madre, la provvida fecondatrice del germe, colei che esalta la potenza dei figli di Belo.
Folte macchie di lentischi e di mortelle, di cedri e di salici, fiancheggiano le vie tortuose e i sentieri dove luce non giunge. Tutto intorno cespugli di gelsomini e di rose, liberali de' sottili effluvî che inspirano l'amore, siccome all'amore dispongono i leni susurri dell'aura vespertina e i gemiti delle colombe, libere abitatrici del luogo, venerate messaggiere della Dea. Il sacro amòmo dal ceppo sarmentoso si leva coi tralci, si avvinghia alle piante maggiori, spandendo ombra di molteplici foglie e fragranza di rosei grappoli sui misteriosi recessi. Da un lato la via maestra, o regale; dall'altro l'Eufrate; in mezzo alla selva, murato su d'un poggio, è il tempio della Dea, con la sua cupola gialla, lungi splendente dal colmo dei rami intrecciati.
Militta Zarpanit! Donde il tuo culto, che le tarde generazioni vedranno fiorente presso tutti i popoli antichi, all'alba della lor vita affannosa? Gli Dei, che simboleggiano la forza degli elementi, ma più assai la paura degli uomini, spariranno dagli altari; i possenti della terra, i fondatori di città e di regni, santificati dall'ossequio del volgo, saranno dimenticati o confusi; ma il culto della bella natura, il culto della gran madre feconda, il tuo culto, o Militta, non perirà. Belti, Militta, Zarpanit, Thaaut, Rea, Istar, comunque ti piaccia esser nomata dalle genti di Sennaar; Astarte a Tiro, Derceto in Ascalona, Afrodite fra gli Elleni, Venere tra gli ultimi Esperii dei mondo antico, i tuoi riti saranno uguali dovunque, comechè sformati dall'indole varia dei popoli, dalla naturale trasfigurazione del simbolo, dal riuscir del mito in leggenda. A te sacro dovunque il mirto, a te le colombe, a te non mai sacrifizio di vittime fumanti, ma offerte di odorate ghirlande e incruento olocausto di cuori.
In te si venera la diva natura, che rinacque sorridente e gloriosa dall'onde. Te, sorgente dalle spume, vide la memore sapienza ellena; preceduta dalla colomba, lieta apportatrice del ramoscello verdeggiante, ti celebrarono le prime istorie della figliuolanza di Sem. L'apparir tuo fu mostra di possanza, non doma dal flutto devastatore; il ramoscello dell'alato messaggiero recò il tuo primo saluto ai superstiti, ricondusse la speranza nei cuori. E rinata alla luce, investita dalle vampe maritali del fuoco interno, vigilata dall'insaziabile sguardo dei corpi celesti, amata amante di avventurosi mortali, fosti feconda di nuovi frutti alle genti; le quali ti riconobbero madre, dalle tue cento mammelle succhiarono la vita, e il tuo culto leggiadro recarono divotamente con sè, allorquando, rifatte dai primi terrori, si sparpagliarono allegre e fidenti sulla faccia del mondo.
Imperocchè (chi nol sa?) da mezzogiorno e da occidente vennero i primi apportatori di civiltà alla terra di Sennaar, a mano a mano che su per l'erta delle convalli mediterranee li sospinse la piena crescente dell'acque, dopo che cadde inabissata nei gorghi marini la prisca terra d'Atlante e il tremuoto spezzò le immani serraglie di Abila e di Calpe. E dal mare ebbe Babilu i suoi fondatori, i suoi demiurghi. Ilu, il suo primo Iddio, il suo primo terrore, è librato sulla distesa dell'acque, o posa sulla vetta dei monti, negro come la nube che lo circonda, pregno di nembi e di folgori. Dal suo grembo squarciato escono le tre forze arcane, quasi le tre forme della sua medesima essenza: Anu, il caos primordiale, Bel, la potenza ordinatrice, Hoa, lo spirito intelligente dell'universo. L'ultimo tra questi è il dio più sensibile, il più noto, il più dimestico ai volgari intelletti; egli è il pesce dio, che reca i primi comandamenti all'umano consorzio. Daokina è la sua forma femminea, venuta anch'essa dal mare, emersa dai flutti dell'Eritreo. Lasciate che il mito si svolga; egli assumerà nuove parvenze, altri significati, altri nomi.
Difatti, agli Dei cosmogonici succedono a breve andare gli Dei siderali. Abbia la divinità un aspetto visibile; se il cielo è sua dimora, il cielo donde si sprigionano i nembi, il cielo donde ci piove la luce, vediamola nello spazio azzurro, vediamola in quelle grandi pupille di fiamma che assidue dardeggiano il mondo. Così i prischi ed oscuri elementi si rinnovano, ricompaiono in luce di stelle, ed alla vecchia triade cosmica, ecco tener dietro la triade celeste, Sin, Samas, Iva, anch'essi rinfiancati di lor forme femminine. Sin, l'astro della notte, risponde al dio delle tenebre, al caos; Samas, l'astro del giorno, risponde alla potenza ordinatrice del creato; Iva, lo spirito dell'etere, l'atmosfera trasparente, risponde allo spirito penetratore dell'universo, al pesce dio venuto dai gorghi del mare.
E adorati questi fulgentissimi numi, perchè non si adoreranno gli astri minori? Ecco, la triade si scempia ancora in tutti quei luminosi pianeti che scintillano la notte nel firmamento azzurro. I nuovi regnatori