Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili

Semiramide: Racconto babilonese - Anton Giulio Barrili


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compiacimento della conscia bellezza, ella si stava immobile al cospetto di Ara.

      Commosso da quella vista, che di tanto superava la sua medesima aspettazione, il re d'Armenia rimase alcuni istanti muto, estatico, a contemplarla. E bevve in quegli istanti per gli occhi, fino all'ultima goccia, l'amoroso veleno, che aveva a conquiderlo, a farlo altro uomo da quello di prima.

      Si sentì perduto, allora, tratto fuori di sè, in balìa di quella donna, per lei forse felice come un dio, o disperato come l'ultimo dei viventi; nè gli dolse di ciò. L'amore è un abisso, di cui non si misura la profondità, se non quando s'è affacciati in sull'orlo periglioso. L'ignoto tira a sè; voci lusinghiere chiamano dal profondo, e in così alto mare è dolce il naufragio.

      — Lascia che io t'adori! — le disse, cadendo a' suoi piedi.

      Ella gli sporse con grazioso atto la mano, per rialzarlo da quella umil postura.

      — No! — soggiunse egli. — Adorarti! adorarti! Concedimi di rimanere a' tuoi piedi, siccome al cospetto d'un nume. Non sei tu stessa una dea? Militta ha assunte le tue forme, io lo vedo, io lo sento, per farmi il più lieto, o il più triste degli uomini. —

      Arcana virtù delle parole che sgorgano dal cuore! Colpita da quell'accento di preghiera, soggiogata da quell'aura misteriosa che sempre accompagna un amor vero e profondo, ella si lasciò cadere, senza far motto, su d'un sedile di sasso, nè ritrasse altrimenti la morbida mano, che egli avea stretta fra le sue, in quell'impeto di amorosa follia.

      Ella seduta, in atteggiamento pensoso, turbata nell'intimo del cuore da un misto di nuove sensazioni; egli inginocchiato a' suoi piedi, palpitante, cogli occhi fisi ne' suoi; rimasero a lungo muti. Ma quante cose non disse quel loro silenzio!

      Gli astri del firmamento piovevano una tacita luce su quelle fronti leggiadre; la brezza notturna recava loro le inebrianti fragranze del bosco, insieme col dolce mormorio dell'Eufrate vicino; da un'agil barca, che venìa rasentando la sponda, giungevano al loro orecchio i grati accordi d'un'arpa e i suoni indistinti d'una cantilena, lenta e malinconica come tutte le melodie della vecchia stirpe cussita. Il cielo, la terra e l'onda, tutto era, intorno ad essi, un soave inno d'amore.

      Ad ambedue grato il silenzio; e la novità del caso loro lo facea necessario del pari. L'uno all'altro stranieri fino a quel giorno e a quell'ora, senza pure avvedersene, o presentirlo, senza esservi tratti da quella ordinata progressione di piccoli eventi che dissimula spesso, o fa parer meno singolare la prepotenza del destino, s'erano essi incontrati a mala pena, e già sostavano l'uno a fianco dell'altro. Occorreva loro anzitutto riaversi da quel subitaneo tumulto, misurare la via in così breve spazio di tempo percorsa, raccapezzarsi infine, leggersi scambievolmente nell'anima.

      L'amore è cosa di tutti i tempi, naturale portato di tutti i cuori; cionondimeno, chi ben guardi, è sempre maraviglioso il suo nascere, siccome è miracolo la cosa più comune del mondo, il nascere del fiore sul ramo, il suo svolgersi rapidamente in tenere foglioline, il colorarsi dei petali, il vaporare ai primi raggi dei sole in soavi fragranze. Così il maraviglioso fior dell'amore era nato ad un tempo in quei due cuori, improvviso, spontaneo, alla prima veduta; ed essi, respirandone i primi effluvii, a vicenda confusi e rapiti, dimenticarono l'universo in quell'ora.

      Il re d'Armenia (meglio sarebbe il dire lo schiavo di quella ignota bellezza) fu il primo a rompere l'amoroso silenzio.

      — Parlami, te ne prego! — esclamò; — fammi udire il dolcissimo suono della tua voce.

      — Che dirti! — chiese la sconosciuta. — So io forse ciò che tu pensi ora di me?

      — Ah sì! — ripigliò Ara sollecito. — Perdonami! Io mi stavo qui muto, ad assaporar la dolcezza della tua vista, non d'altro curante che della mia felicità senza pari. Ma potrei io operare diverso? Che dire, quando si contempla e si adora? Ho io mai provato ciò che oggi provo? Ho io mai veduto figlia di donna, la cui beltà reggesse al paragone della tua? Mai, lo giuro pei sacri platani di Van, donde a noi si rivela il consiglio dei Numi, mai ho sentito così fiero, e in un così dolce tormento; nè tra' miei monti natali, o nella istessa Armavir, famosa per le sue donne leggiadre, ve n'ha una che ti somigli da lunge.

      — Sei tu d'Armenia? — chiese ella con piglio curioso. — E il tuo nome....

      — Ara; — rispose brevemente il giovane; — e il tuo, mia divina? Non mi sarà egli dato di udirlo, soave al certo come il suono della tua voce? —

      Ma la sconosciuta non pose mente alla dimanda, o non la udì; tutta la sua attenzione essendo rivolta a quel nome.

      — Ara! hai detto? Ara, figlio d'Aràmo? Esso è nome di re; — soggiunse ella, veduto il cenno affermativo di lui.

      — Son io quel desso; — rispose egli umilmente; — re del popolo aicàno, e tuo schiavo. Ma dimmi, o bellissima; come ti è egli noto l'oscuro nome del figlio d'Aràmo?

      — E a chi, lungo le rive dell'Eufrate e del Tigri, non è noto il nome del giovine re d'Armenia, del vincitore di Masciag, dov'egli ottenne ad un punto la palma della vittoria e la benda di perle? Non è ella forse una benda di perle che voi cingete in capo, o figli di Aìco, quasi a testimonianza del vostro corso vittorioso dalle cime dell'Ararat fino ai lidi eritrei?

      — Tempi di gloria! — esclamò il principe, con malinconico accento. — Ora i leoni di Cus regnano sulla vasta pianura; le aquile aicàne si raccolsero crucciose sui greppi.

      — Donde volarono spesso a settentrione, per piombare sui mobili campi dei predatori Turani, o ad occidente, per annientare la potenza dei figli di Canaan. —

      Così parlava la sconosciuta, e le sue parole eran balsamo al cuore del pronipote d'Aìco.

      — Grande è Babilonia, — proseguì ella nobilmente, — e non invidia la gloria ai suoi amici della montagna. Aìco e Nemrod si guerreggiarono aspramente; ma vivono in pace ed amistà i loro discendenti. E tu, glorioso tra tutti i forti della tua stirpe, da quando giungesti alle nostre mura ospitali? Ancora non hai veduta la regina? —

      La fronte del giovine si rannuvolò a quelle parole.

      — Son giunto poc'anzi, — rispose, — e la mia gente è qui presso, negli alloggiamenti a noi assegnati dalla possente regina. Soltanto domani oltrepasserò il baluardo di Nivitti Bel, con la pompa che s'addice ad un re... ad un re tributario! — aggiunse egli, mal reprimendo un sospiro. — Tu sei cortese, o mia divina; ma che giova il nasconderlo? la gloria dei figli d'Aìco s'è grandemente offuscata, ed io, l'ultimo tra essi, reco a Babilonia il tributo dell'amicizia, come il minore al maggiore. Felice, invero, dacchè ti ho veduta e t'amo; più felice, se mi saprò riamato da te; ma domani, pur troppo, io vedrò Semiramide!

      — Pur troppo! e perchè?

      — Perchè.... deggio dirtelo? Infine, sì; non sei tu la signora del cuor mio, e non debbo io aprirtelo intiero? Perchè il mio pensiero rifugge da costei; perchè, al solo profferire il suo nome, sento nell'anima come un misto di terrore e di odio.

      — Tu la conosci già?

      — Non lei, la sua fama. Ella è possente, ma crudele; grande il regno, ma feroci gli amori. —

      Si riscosse a quelle parole la sconosciuta, e un lampo di sdegno le balenò dagli occhi, promettitore di più fiera risposta. Senonchè, nell'atto di guardare il compagno, così bello, così candido nel sembiante, le venne meno il proposto; l'ira si spense e il pietoso affetto prevalse. E allora, non senza un tal po' d'amarezza, ella prese in tal guisa a rispondergli:

      — La fama? E tu credi a questa vile menzogna? Anzitutto, sai tu donde nasca? Non già dalla lode, così scarsa pei vivi e restìa; bensì dalla invidia, dal maltalento, a cui giova il perfidiare, e dalla stoltezza, cui torna agevole il credere. Semiramide ha i suoi nemici e non li cura; ma per fermo le dorrà di vederti fra costoro. In che t'ha ella offeso, perchè tu creda così ciecamente il peggio di lei?

      — Tu l'ami, lo vedo; — le disse il re d'Armenia, con malinconico accento; — ma io pure ho amato, e l'amico del mio cuore non è più tra i viventi. Povero Sandi! Era egli il compagno della mia fanciullezza, egli


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