Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili
il biondo garzone d'Armenia, che avea cantata nei suoi versi innamorati la bellissima rosa di Sennaar; lo vide e lo amò, per ucciderlo. Così fu narrato in Armavir; una sera egli salìa chetamente ai pensili orti della regina; all'alba vegnente, l'Eufrate accoglieva nei suoi gorghi un cadavere.
— Ah, menzogna! — gridò ella balzando in piedi, con piglio iracondo. — E chi ha osato calunniarla in tal guisa? Ella non vide il tuo Sandi, io te lo giuro pe' sommi Dei, che ci stanno sul capo. Non dar vanto di regali amori, siano essi pure feroci, come tu pensi, o re d'Armenia, a chi forse lasciò la vita in un laccio volgare.
— Perchè ti sdegni? — le chiese Ara turbato. — Amica della regina, troppo poco lo sei di chi t'ama. E sia pure! L'oracolo di Peznuni me lo aveva pur detto, innanzi ch'io lasciassi Armavir! «La terra di Sennaar ti sarà fatale!» Accusami alla regina; domani non andrò al suo palazzo, sibbene alla morte. Non mi dorrà il morire, se dalle tue labbra mi verrà la sentenza. —
L'accento appassionato commosse la sconosciuta.
— T'inganni; — soggiunse ella, ad un tratto mutata. — Troppo facile trascorsi allo sdegno; ma non temere! Chi t'ha veduto una volta non può tradirti, per fermo. A te l'amicizia offuscò la ragione; a me l'amicizia dettò le irose parole. Se tu conoscessi Semiramide, — e qui la voce di lei assunse un tono d'infinita mestizia, — sventurata la diresti, non rea. Nessuno amò la povera regina, nessuno! Ella è sola, si sente sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta sul mare. Chiede affetto (e chi, tra i nati all'amore nol chiede?) ma invano, gagliardo e sincero come il suo. Ognuno in lei vede e desidera la regina; nessuno ha amata la donna. Tu la vedrai, re d'Armenia, e se non somigli a quanti le stanno tementi dintorno, se hai virtù di penetrare con lo sguardo oltre il fasto regale che la circonda, vedrai dolore che non ha uguale in terra, e che mal si tenta di nascondere nel profondo dell'anima; vedrai fastidio d'ogni grandezza, d'ogni vanità, d'ogni ossequio bugiardo; vedrai desiderio infinito di verità, di schiettezza e di fede. E allora... allora non crederai alla fama, allora, forse, tu amerai quella donna. —
Il giovane crollò mestamente il capo, come chi, non potendo assentire, non ardisce pure far contro.
— Perchè, — entrò egli a dire, — ci diam noi pensiero di ciò? Tristi ricordi hanno fatto forza all'animo mio; lasciamo ora in disparte ogni cosa che non sia l'amor nostro; te ne prego. Parliamo di noi; parliamo di te, — aggiunse con voce carezzevole, — di te, che sei tanto leggiadra, anco negl'impeti dello sdegno. Celebrata è Semiramide nel mondo per maravigliosa bellezza; ma ella, mentre tu l'ami e la difendi, per fermo invidia la tua. —
E rimase ad attendere una sua parola, curvo in atto amoroso di fianco a lei, che s'era di bel nuovo seduta, modesto e ardente ad un tempo, lo sguardo fiso in quei grand'occhi neri, che lo guatavano tra curiosi ed incerti.
— M'ami tu molto? — gli chiese ella cedendo ad un moto repentino dell'animo.
— Lo chiedi? — gridò egli, nell'atto di afferrarle la destra e di stringerla al petto, come se volesse farla consapevole degli ardori ond'era tutto compreso. — Odimi, o figlia di Babilu, odimi, ignoto astro di luce! Nei miei monti natali, sono i costumi più semplici e rozzi, ma forti. Si ama una volta sola, ma per tutta la vita. Veloce, prepotente a guisa di fulmine, scende l'amore nel cuor nostro e lo strugge; però sono una cosa sola il vedere e l'amare. Io ti ho veduta e ti amo; non ti amavo io già, prima di vederti in viso, di udire il suono della tua voce? E tu, dimmi, nel nostro incontro non vedi, non senti, alcun che di fatale?
— Fatale, sì, tu l'hai detto, fatale! — ripetè con vibrato accento la sconosciuta. — Così è bello, non altramente, l'amore; così s'avrebbe mai sempre a volerlo: o incendio o nulla. Amare è darsi intieramente, è confondersi, vivere in una due vite, se felici o sventurate, non monta, ma gloriose, ma ardenti, fino al punto di consumarsi a vicenda e morire, a guisa degli astri, in uno sprazzo di fuoco.
— Così t'amerò, — disse Ara; — fosse anco la morte nei tuoi baci. Chi ama, ha vissuto.
— E dimmi... — soggiunse ella peritosa, fissando i suoi grandi occhi neri in quelli del giovine, — per questo tuo medesimo affetto, non potrai tu farti più umano nel giudicar la regina?
— Che chiedi tu ora? — esclamò egli turbato.
— Gli è un mio capriccio, — rispose ella prontamente. — Donna amante non si reputi amata, se prima non abbia messo il cuore dell'uomo alla prova.
— Ah! — proruppe Ara. — Dubiteresti ancora di me?
— Non dubiti tu ancora delle mie parole? — diss'ella di rimando. — Non dài tu orecchio, anzi che alla mia voce, alle perfidie del volgo?
— No, t'inganni; io non dubito, ma il mio cuore sanguina tuttavia; concedi al tempo di rammarginare la piaga. Tu taci? Deh, mia diletta, non t'offenda il diniego! Più tiepido amico, ti parrei forse più fervido amante?
— Amore, dolore! — mormorò ella tra sè, quasi rispondesse ad una voce segreta dell'anima. — E sia così, come vuole la Dea!
— Rispondimi, te ne supplico! — incalzò il re d'Armenia, cadendo in ginocchio e tendendo le palme verso di lei. — Non mi lasciare in questa tormentosa incertezza, peggior d'ogni morte! Vedi, non sempre si è padroni di sè: v'hanno cose da cui l'animo rifugge. Comanda che io m'allontani; comanda che io ti dimentichi; potrà forse il mio cuore obbedirti?
— Giuralo, dunque; — diss'ella con piglio risoluto; — giura che mi ami, e che, qualunque cosa avvenga... Bada bene; qualunque cosa avvenga, — ripetè solennemente, — tu sarai mio, sempre mio!
— Che vuoi nascondermi? — chiese il giovine attonito. — Che vedi tu nel mio futuro?
— Tremi già? — soggiunse la sconosciuta.
— Oh, se tu credi che io m'arresti per tema... — rispose egli sollecito; — ecco, io lo giuro; qualunque cosa avvenga, sarò tuo, sempre tuo! —
Un divino sorriso irradiò il volto della bellissima donna, che si fece allora a chiarirgli il suo pensiero con più dolci parole.
— Tu domani vedrai la regina, e chi sa? forse in vederla, ti fuggirebbe dal cuore ogni affetto per me.
— Di ciò temevi! — gridò Ara, con accento d'amoroso rimprovero.
— Di ciò, d'altro ancora, di tutto! — rispose ella trepidante.
— Oh, crudele! — ripigliò il garzone innamorato. — Io giuro nel santo nome di Militta, che ti ha fatta pietosa alle mie preghiere, giuro per la mia fede di re, che non s'è macchiata di tradimento mai, giuro per la sacra memoria di Sandi, che fu sino ad oggi l'unico affetto vero della mia vita, giuro di non amar che te sola, te sola e sempre, checchè mi serbi il dio delle sorti! Sei paga? Non accoglierai tu il mio giuramento? —
E stette anelante, lo sguardo fiso, in atto supplichevole, ad aspettar la sentenza dalle labbra di lei, che rimase un tratto immobile e muta a contemplarlo.
— Acerba pena ti preparo forse, o mio cuore! — mormorò ella, raccogliendosi sgomentita in sè stessa. — Ma sia! non l'ho io chiesto poc'anzi a Zarpanit, d'essere amata per me, per me sola, checchè potesse accadermi? —
Il giovine era tuttavia ai suoi piedi, spiando ogni suo moto, chiedendole mercè con la muta eloquenza degli occhi. La luna, librata a mezzo il suo corso, accarezzava, coi candidi raggi, quell'amoroso sembiante. Ed ella, impietosita, chinò il viso sul viso di lui, lo trasse a sè, lo guardò ancora; un ricambio d'ansiose interrogazioni, di fervide promesse, di soavi languori, parlò in quegli sguardi confusi; indi, un'arcana virtù ravvicinò le labbra alle labbra, le strinse in un bacio, lungo, intenso, come il desiderio che ardeva nei cuori.
— Ti credo; — ella disse quindi, gettandogli al collo le braccia e nascondendo il bellissimo volto sul seno palpitante del re; — ti credo e son tua. —
Così l'uno all'altro ristretti, a guisa di due giovani fidanzati, ebbri d'amore, dimentichi d'ogni cosa creata, ripigliarono leggieri la via del tempio, guardandosi in volto, bisbigliandosi all'orecchio cento di quelle parole, soavemente