Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili
il vigile Thuravara avea riferito a Zerduste, la cavalcata degli Armeni, entrando dal baluardo di Nivitti Bel, aveva già fornito buon tratto di strada per mezzo ai quartieri occidentali della città, avviandosi al ponte, che ne congiungeva le membra vastissime, attraversate dal fiume.
Ristorati da una notte di riposo, astersi dal sudore e dalla polvere del lungo viaggio, coperti dei loro arnesi più sfoggiati, i cavalieri del re d'Armenia faceano vistosa mostra di sè ai cittadini accalcati lunghesso le vie. Si notavano le sciolte criniere dei cavalli sbuffanti, le lunghe spade pendenti dal fianco, le luccicanti faretre, i lunghi archi ad armacollo e le mitrie folte di negri peli che davano ai montanari di Peznuni e di Armavir un così marziale aspetto, facendo così spiccato contrasto con le gentili e quasi muliebri fogge del popolo babilonese.
Ma gli sguardi della moltitudine erano in particolar modo attratti dalla nobil figura del re. Era costume dei monarchi lo andare in cocchio, con l'auriga dai piedi e il portatore d'ombrello da tergo. Il giovine Ara veniva in quella vece più modestamente a cavallo, ma con assai più vantaggio per la sua grande bellezza. Calze di porpora si aggiustavano alle gambe nervose ed eleganti; una tunica di bianca lana, ricamata d'oro sui lembi, gli si stringeva a' fianchi; la clamide regia, anch'essa di porpora, gli scendeva in molli pieghe dagli òmeri; la benda di perle portata da' suoi maggiori, gli girava intorno ai biondi capegli. Il piede, chiuso in un sandalo di morbido cuoio, posava su staffa d'oro; la mano leggiadra stringeva i capi delle redini gemmate, splendenti sul poderoso collo del suo bianco palafreno, a cui una pelle di leopardo servìa di gualdrappa.
«Ara il bello! Ara il bello! — gridavano i cittadini di Babilonia, come già, vedendolo passare, aveano il giorno addietro gridato i volghi suburbani. — Invero, egli non si è mai veduto un più leggiadro garzone sulla terra di Sennaar. Come la regina nostra risplende per sovrumana bellezza tra tutte le donne, così questo nobile straniero tra gli uomini. Ara il bello, sii tu il benvenuto in mezzo al popolo delle quattro favelle!» Così, per tutta la lunghezza del cammino che il re di Armenia aveva a percorrere, il mormorìo d'ammirazione destato dalla sua vista, venia man mano rompendo in esclamazioni, in grida di esultanza, in affettuosi saluti, come di popolo ossequente e devoto al suo re, anzichè di nazione avventurosa e superba al suo tributario. E tutti, come potevano, a spingersi innanzi e far ressa intorno al suo palafreno, che durava fatica ad innoltrarsi, sebbene una fitta schiera di soldati babilonesi lo precedesse, per isgomberare il passo al regale corteo.
Nel cuore di Ara il bello tornava a regnar la mestizia. Egli già sentiva la vicinanza di Semiramide; pochi istanti ancora e si sarebbe trovato al cospetto della grande regina d'Assiria, di colei che signoreggiava il più vasto impero del mondo. E l'immagine di Sandi, del suo povero amico galleggiante sull'acque dell'Eufrate, gli stava sempre nell'anima. Per discacciare quella crescente tristezza, egli pensava allora alla notte vegliata nel sacro bosco di Militta; pensava alla sua bellissima sconosciuta; pensava ai dolci colloqui, alle ineffabili ebbrezze che ancora gli scaldavano il sangue. E quella donna adorata non avea forse giurato esser la regina innocente della morte di Sandi? Poteva egli mentire, quel dolcissimo labbro? No certo, ed egli credeva alle parole di lei; ma, per contro, poteva amar Semiramide chi l'avea tanto odiata fino a quell'ora? Poteva andarne con allegrezza alla regina, chi ricordava d'esser sangue d'Aìco e non sapeva dissimulare a sè stesso di venire in atto di tributario alla gente di Accad? Poteva avvicinarsi desideroso alla donna, celebrata per insigne bellezza nel mondo, chi aveva pur dianzi veduta ed amata la bellissima tra tutte?
Atossa, era il suo nome, il soavissimo nome che la sconosciuta gli avea susurrato all'orecchio. Altro non aveva egli saputo dell'esser suo, ma bene aveva argomentato com'ella fosse una tra le più riguardevoli donne di Babilonia. E non avrebbe egli dovuto vederla tra breve, in mezzo alle nobili compagne della regina? A volte lo sperava, o almeno gli pareva che ciò fosse probabile: ma un dubbio acerbo gli stringeva il cuore e vi soffocava per entro quella lieta speranza. Una così meravigliosa bellezza! Mai più Semiramide avrebbe patito la vicinanza e il paragone di così splendida amica! Eppure, non gli aveva ella detto, a lui dolente di abbandonarla sui primi albòri del giorno, non dubitasse, non temesse di nulla, che presto ei l'avrebbe di bel nuovo veduta, ed ella medesima sarebbe stata la prima a farglisi incontro? Così procedeva, tra speranza e timore; frattanto venìa rispondendo con atti cortesi alle grida e ai saluti del popolo.
Indi a non molto, la cavalcata giunse alla svolta del ponte, miracolo dell'arte babilonese, che collegava le due sponde dell'Eufrate e i due palazzi regali, l'uno a riscontro dell'altro, ambedue meravigliosi a vedersi. Il primo, che era posto sulla riva destra, girava trenta stadii, rinfiancato di alte mura merlate, su cui si vedevano impresse figure di combattenti, città assediate, e lunghe file di prigionieri supplicanti. Di là dal ponte torreggiava la gran mole dell'altro, sopra un terrapieno di sessanta stadii, a cui si giungeva per ampie salite laterali, vigilate ad ogni ripiano da colossi di pietra. Aveva un giro di quaranta stadii il secondo recinto, ornato di ogni specie animali, così diligentemente condotti e coloriti, che pareano spiranti di vita. Nel terzo recinto, che era la cittadella, si ammiravano rilievi e dipinti di più egregio lavoro; tra essi una caccia, in cui le figure apparivano alte di quattro cubiti e più. Quivi era effigiata Semiramide su d'un focoso destriero, nell'atto di scagliare il giavellotto contro una pantera. Poco lunge da lei era Nino, il suo sposo, che d'un colpo di lancia trafiggeva un leone.
Tutto ciò era stupendo a vedersi da lunge, vera montagna di edifizi sovrapposti, selva intricata di strane forme e di svariati colori. Immani architravi e fregi e merlature correnti per lunghissimo ordine su colonnati di palme; tori e leoni alati con faccia umana, qua e là fieramente piantati a custodia degl'ingressi; lunghe aste variopinte, dalle cui cime sventolavano stendardi e orifiamme di porpora; scale e balaustrate di marmo; mura lucenti di smalto; varietà infinita di cose, che confondeva lo sguardo, senza nuocere alla grandiosa unità del complesso! E sui terrazzi più alti, l'occhio discerneva padiglioni e velarii, tesi a riparo del sole, fra mezzo ad alberi verdeggianti, òasi sospese tra cielo e terra da un capriccio di donna, da una fantasia di regina.
Come fu giunto il corteo sull'altra riva del fiume, la scorta dei babilonesi si fermò e si aperse in due ale, per cedere il passo agli Armeni. Il giovin re attraversò la spianata e andò difilato verso l'ingresso della reggia, che gli era addimostrato da due leoni colossali, l'uno a riscontro dell'altro, in atteggiamento di riposo.
Colà stavano ad attenderlo, per fargli le prime accoglienze, i grandi della corte, il gran maggiordomo, il gran coppiere, il capo degli eunuchi, il comandante delle guardie reali, con numeroso seguito di ufficiali minori e di servi. Tranne questi ultimi, tutti indossavano il candi, lunga tunica di lana scarlatta, con frangia d'oro sui lembi, la quale risaliva sul dinanzi infino alla cintura, parimente d'oro, donde pendeva la spada, con le insegne dell'ufficio di ciascheduno. Gli appartenenti alla milizia, in cambio di mitria, portavano in capo una tiara foggiata ad elmo chiuso, che copriva loro le guancie ed il mento.
Il gran maggiordomo, facendosi incontro al re d'Armenia, così parlò, levando in alto le mani:
— Ben giungi, o discendente d'Aìco, alla reggia di Semiramide, nostra gloriosa signora, cui Belo ha concesso la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui potenti della terra. In quella guisa che Sanì regna nel cielo e diffonde per ogni dove i benefizi della sua luce, così ella regna in Babilonia e sparge i tesori della sua amicizia sui regnatori di popoli che la circondano. —
Il re d'Armenia chinò leggiadramente il capo, ma senza risponder parola. Gli eunuchi, fattisi innanzi a lor volta, pigliarono ossequiosamente le redini del suo cavallo, per condurlo entro il primo recinto e su per l'ascesa che metteva al piano superiore. Così salendo in compagnia degli ufficiali babilonesi, il giovine Ara potè, alla prima svolta dell'ampio viale, scorgere dietro a sè la lunga fila de' suoi, e il popolo di Babilonia accalcato sul ponte e sulle rive del fiume.
A quel grandioso spettacolo, un altro ne seguì, quando egli fu giunto all'altezza del secondo ripiano, vasto piazzale, dintornato da nobili edifizi, ov'erano gli alloggiamenti di tutti i grandi della corte. Colà stavano in bell'ordinanza schierati i guerrieri della regina, splendidi a vedersi nelle loro corazze di lino, coi loro tondi scudi imbracciati e gli elmetti di rame luccicanti al sole. Alla vista del re d'Armenia squillarono le trombe, rimbombarono i timballi percossi, e il canto guerresco degli Accad si levò fino al cielo.
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