Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili
Si erano essi a mala pena partiti di là, che una testa curiosa sbucò fuori da un vicino cespuglio. Indi, raffidato dalla solitudine, un uomo ne uscì con tutta la persona, ravvolto in un bruno mantello; strisciando a guisa di serpente, attraversò il sentiero, e si cacciò da capo nell'ombra, in una macchia di lentischi, che risaliva lunghesso l'erta del colle.
CAPITOLO IV. L'onniveggente.
Già impallidiva Istar, la lucida stella del mattino, e il cielo biancheggiava all'orizzonte, allorquando, sul più remoto terrazzo della reggia di Semiramide, apparve un uomo, o troppo nemico del sonno ristoratore, o desideroso di respirare le prime e le più pure aure del giorno.
Egli era alto della persona e di valide membra; indossava una gran tunica nera, frangiata d'oro sui lembi e lunghesso il giro delle ampie maniche ricadenti sui fianchi; portava, a mo' di diadema, intorno alla fronte, un cerchio d'oro, donde la folta capigliatura gli ricadeva inanellata sul collo; la barba, folta del pari, nerissima e riccioluta, gli scendeva sul petto, dando risalto al viso, notevole per le maestose fattezze e pel colore bianco smorto della carnagione, a contrasto colle labbra porporine e colle sopracciglia d'ebano, sotto cui scintillava il mobile smalto delle profonde pupille. Era una bellezza di granito, la sua; bellezza nobile, contegnosa e fredda, che comandava l'ammirazione e non ispirava l'affetto. Così apparivano terribilmente belli i colossi di pietra sul limitare dei templi; così, mirabilmente severe, lungo le pareti babilonesi, le immagini dipinte dei sacerdoti e dei re.
Immobile come un nume di pietra, egli stette a lungo lassù, colle braccia conserte, ritto sull'altana, in atto di guardare agli estremi confini del cielo, donde veniva man mano crescendo un'ampia lista di luce, zona ranciata da prima, indi accesa di porpora, che circondava la nereggiante pianura.
Egli non era lieto per fermo; ben lo dicevano le ciglia aggrottate e lo sguardo fiso, che parea cercare le invisibili regioni, dove ha la sua culla il sole, mentre forse lo spirito irrequieto si addentrava negli abissi inesplorati, donde scaturisce il pensiero. E così rimaneva, guatando e pensando, raccolto in sè medesimo, come un colosso circondato da tenebre, il quale aspetti la luce, o come un'anima smarrita, sopraffatta dai casi, la quale aspetti da lontano evento un consiglio.
Poco stante fu giorno; lo splendido sole asiatico, improvvisamente apparso all'orizzonte, levandosi maestoso in un cielo di madreperla azzurrina, investì de' suoi raggi la dormente città e sfolgorò in più punti, riflesso dal dorso lucente delle sue cupole, dalle facce delle sue piramidi, dai fianchi delle sue torri.
Quella vista lo riscosse dalla sua immobilità pensosa. Egli si volse allora ad un altare di pietra, che sorgeva nel mezzo della piattaforma; frugò tra le ceneri che ingombravano il focolare e ne scoverse i carboni ardenti tuttavia; vi accatastò la stipa in bell'ordine; poscia si fece, in atto religioso, a soffiarvi su, per destarne la fiamma. Indi a poco la vampa si accese e crepitò, cercandosi la via per mezzo agli aridi tronchi, mentre egli, inginocchiatosi, e sollevando le palme alla crescente fiammata, venìa mormorando le sue preghiere al dator della vita.
— «Io invoco te in questa purissima fiamma, io celebro te, creatore Ahuramazda, luminoso, risplendente, massimo ed ottimo, perfetto nelle opere tue, mente e bellezza suprema, possessore della vera scienza, fonte di gioia, tu che ci hai creati, formati e nudriti, tu il santo, tu l'intelligente tra gli esseri.
«Tu sei vero, tu lucido e splendente, tu causa prima di tutte le ottime cose, dello spirito che è nella natura, di ciò che nasce dal suo fianco generoso, dei corpi luminosi e di quelli che splendono di luce propria; tu il verbo creatore, esistente avanti il cielo, avanti l'acqua, avanti la terra, l'albero, il toro ed il fuoco tuo figlio, avanti l'uomo veridico, avanti i Devas e gli animali carnivori, avanti tutto l'universo, avanti tutto il bene da te creato, e avente il suo germe nella verità.
«Come il verbo dalla volontà suprema, così l'effetto non sussiste se non perchè procede dalla verità. La creazione di ciò che è buono nel pensiero e nell'azione, appartiene nel mondo a Mazda, e il regno appartiene ad Ahura, che il proprio suo Verbo costituì distruttore dei tristi.»
Dette in ginocchio queste preghiere, l'ultima delle quali ogni sacerdote di Ahuramazda dee ripetere cento volte al giorno, egli trasse di sotto all'altare una coppa di argento e vi spremè il succo dell'amòmo, dell'arbusto nodoso, che porta, per insigne privilegio celeste, il nome più antico di Dio, nella sacra lingua dell'Iran. L'hom (tale è il suo prisco nome) si riputava per ciò il primo degli alberi, come il toro era detto il primo tra gli animali. Consacrato davanti all'altare, esso era la medesima sostanza di Dio; bevuto dal sacerdote, esso era Dio che si trasfondeva nel petto dell'uomo.
— «Io ti volgo la mia prece, o Hom, elettissimo Hom, che dài la giustizia, la purità e la salvezza, ottimo di forma, splendido di luce, vittorioso, che hai nome di aureo!»
Spremuto il succo nella coppa, alzò questa con ambe le palme verso la fiamma, e ne sparse alcune goccie sugli ardenti carboni.
— «Per questa sola coppa che io ti presento, o dator d'ogni bene, rendimi tu quattro, sei, sette, nove, dieci per uno; ricompensami tu in questa guisa; dà la purezza al mio corpo. Veglia su me, purissimo Hom, ottima tra le sostanze, scendi tu stesso in me, sorgente di vita. Aprimi, o santissimo, allontanator della morte, aprimi le dimore celesti, sfolgoranti di luce, piene di felicità, superbe di gloria.» —
Ciò detto, accostò la coppa alle labbra e bevve il consacrato liquore dolcissimo, a mala pena spremuto, ma che tornerebbe fatale a chi lo bevesse dopo fermentato. Tale era il sacrifizio del fuoco, tale l'offerta dell'amòmo, presso le antichissime genti dell'Iran.
Il sacrificatore proseguì, levando le palme all'altare:
— «Come tu ardi in questa fiamma, come tu regni nei cieli, così regna in terra, o possente Ahuramazda; così stendi il tuo divino impero dai culmini dell'Iran fino alla pianura del Sennaar e più oltre ancora, fin dove stridono i flutti del mare allo inabissarsi del sole. Possa Babilonia, possa il popolo delle quattro favelle, inchinarsi alla tua legge, o spirito di verità! I suoi astri venerati, che sono essi al cospetto della tua luce? Le sfere celesti, le forze arcane della natura, dovranno sempre usurpare il tuo luogo, o creatore di tutto ciò che è, nell'ordine degli spiriti eterni e delle cose mortali?» —
Così disse, con fervido accento nella sacra lingua di Javan; così diè fine alla preghiera e si alzò per chiudere il rito. Un lieve moto del capo gli consentì di vedere dietro di sè, pochi passi discosto, ov'era un altr'uomo genuflesso, e un sorriso di superba contentezza sfiorò le sue labbra. Fingendo tuttavia di non avvedersi della presenza di quell'altro, egli attese con minuta cura a rasciugare la coppa e a gittar sul fuoco gli avanzi del sacrificio; quindi finalmente si volse e andò, con piglio affettuoso, incontro al nuovo venuto.
Era questo un giovinetto, le cui strane sembianze comandavano l'attenzione. La grazia ingenua degli atti e del sorriso, la eleganza un tal po' impacciata delle forme e una certa inconsapevol ferocia dello sguardo, pareano contendersi l'impero su quell'aspetto di adolescente e lo faceano rassomigliare ad un lioncello, dai cui moti leggiadri, ma già di soverchio baliosi, trasparisce la forza e la crudeltà degli anni maturi. Sorridevano le labbra coralline, ma tumide di voluttà e d'orgoglio, lievemente ombreggiate dai peli vani della pubertà nascente; si rappicciolivano gli occhi sotto le ciglia, in atto tra ossequioso ed amorevole, ma lucidi e fissi, promettitori di lampi; soavi erano i contorni del viso, ma sotto quella bruna carnagione si vedeva correre vivace, impetuoso, il sangue della stirpe cussita. Egli appariva un misto di fierezza più che virile e di dolcezza femminea; cose del resto assai facili ad accoppiarsi nella umana natura. Per altro, la sua tenera età lo ravvicinava più ancora al femmineo; aiutando a questa apparenza la sua bianca tunica frangiata d'oro, con sopravveste violacea, la mitra aggraziata, dai capi pendenti sugli òmeri, e la collana di gemme, che dintornava un collo soavemente tondeggiante, siccome è delle donne o dei giovani.
Alzatosi in piedi sollecito, l'adolescente si mosse anch'egli, per farsi incontro al maggiore.
— Padre mio, — diss'egli inchinandosi, nell'atto