La vita italiana nel Trecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1891. Autori vari

La vita italiana nel Trecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1891 - Autori vari


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       Indice

      DI

       FRANCESCO BERTOLINI

      Il secolo XIV rappresenta nella storia italiana un'epoca di grandi contrasti. Mentre, da un lato, esso ci fa assistere alla decadenza delle istituzioni feudali e gerarchiche del medio evo; dall'altro, ci offre lo spettacolo della risurrezione della coltura antica, che credevasi estinta per sempre. Il papato e l'impero, queste due grandi creazioni del genio latino, sono essenzialmente mutate da ciò che erano state nel passato. Le nazioni cristiane ripudiano tanto la teocrazia papale, quanto l'autocrazia imperiale, come ripudiano ogni potere che pretenda all'universalità. Un sentimento nuovo le investe, che a poco a poco assume la gravità di un bisogno indeclinabile: egli è di vivere ciascuna a sè, indipendente da ogni potestà straniera.

      Il momento era solenne per la patria nostra. Trattavasi di sapere, se nella rovina delle due grandi istituzioni, che furono opera sua, sarebbe pur essa stata travolta, ovvero se il suo genio sarebbe stato capace di crearle una nuova missione nel mondo in servizio della civiltà e del progresso umano.

      I sintomi erano sinistri: l'imperatore e il papa invocati da lei, affinchè accorressero in suo soccorso per arrestare l'opera deleteria delle fazioni, si mostrarono impotenti di guarirla da' suoi mali, come lo erano di risorgere dall'avvilimento in cui essi stessi erano caduti. In questo momento, in cui pareva che un lenzuolo funebre dovesse stendersi su la misera Italia, e chiudere per sempre il libro della sua storia, il suo genio la rianimò a vita nuova, e le creò una missione di civiltà, che le fruttò per la terza volta la egemonia morale sull'Europa. Codesta missione fu il rinnovamento della coltura antica, che schiuse alle genti cristiane nuovi ideali, facendole assurgere alla libertà del pensiero, che si svolse poi in libertà civile.

      Per grande sventura, mancò all'Italia l'applicazione alla vita reale della libertà del pensiero; di maniera che, mentre essa stava operando il suo rinnovamento letterario e artistico, fu vista lasciarsi novamente mettere in ceppi dalle genti straniere, ch'essa avea intellettualmente rigenerate.

      Così si aperse all'Italia una nuova èra di servitù, la quale non dovea chiudersi che all'età nostra. In questa nuova missione serbata all'Italia dal suo genio, Roma non poteva conservare il primato tenuto nel passato. La metropoli del mondo cristiano, da cui aveano avuto origine le due istituzioni cosmopolitiche dell'impero e del papato, traversava allora una crisi che minacciava di seppellirla nell'oblio, al pari di un tempio rimasto senza culto e senza sacerdozio. Essa era, infatti, rimasta senza il papato, che era la sua anima, la sua vita; e l'impero non le si faceva vivo fuorchè per comprovare la propria impotenza e ignominia.

      Ma, anche indipendentemente da questo suo stato anomalo, Roma non possedeva alcuna qualità che la rendesse idonea ad essere sede della coltura classica risorta. Essa era sempre nel pensiero universale la metropoli necessaria della cristianità: essa poteva quindi aspirare ad essere chiamata la nuova Gerusalemme celeste:

      E sarai meco senza fine cive

      Di quella Roma onde Cristo è Romano;

       Purg., XXI.

      ma non avea alcun titolo per tenere il primato nella nuova signoria, che l'Italia era chiamata ad esercitare sull'occidente. E come avrebbe potuto una città, la cui vita parve per secoli andare assorbita dal papato; una città, che pur nel papato personificava la fede cristiana, così da poter quella far dire al poeta:

      O Sommo Patre, duca e Signor mio!

      Se Roma pere dove starajo io?[2];

      come avrebbe potuto, diciamo, tale città essere la sede di una coltura che osava lacerare il velo mistico della fede, venerare gli eroi, i poeti, i filosofi dell'antichità pagana, colla stessa fervida devozione con cui la cristianità avea per lo innanzi venerato i martiri, gli apostoli e i padri della Chiesa, e accogliere nella sua civiltà lo spirito pagano?

      Questo titolo che mancava a Roma, di dirigere la nuova coltura, era posseduto da Firenze, vera rappresentante del genio nazionale italiano, che si fe' persona in Dante Alighieri. Firenze, potente per operosità civile e per vita intellettuale, e sopratutto fornita di genio politico, potè difendere e conservare la libertà più a lungo delle sue sorelle italiane. La sua resistenza alle armi di Enrico VII, non solamente fu un grande atto di valore, ma ancora di patriottismo. Da quel tempo, Firenze fu degna di essere la rappresentante dell'indipendenza e dell'onore nazionale. Matteo Villani, pieno di entusiasmo per quella difesa eroica, scioglie un inno al guelfismo italiano. “E di vero, la parte guelfa, scriv'egli, è fondamento e rocca ferma e stabile della libertà d'Italia, e contraria a tutte le tirannie.„

      Ma il risveglio della coltura classica non è il solo servigio reso dal secolo XIV alla civiltà europea. Esso diede pure il primo colpo, e fu letale, al grande edifizio gerarchico eretto dalla Chiesa, e dal quale essa dettava legge al pensiero e alla coscienza delle genti cristiane. La critica filosofica e il diritto pubblico alzarono allora per la prima volta il capo, e precorrendo il mistico suono della tromba di Gerico, sciolsero il pensiero dalle pastoie teocratiche a cui il medio evo avealo asservito.

      Il concetto civile della monarchia divenne il manifesto del diritto pubblico e il simbolo di una generazione riformatrice, che tendeva ad affrancarsi dalle strettoie della gerarchia feudale. Novamente, come nel passato, la società si divide nei due campi del papato e dell'impero; ma il concetto che anima i seguaci di quest'ultimo è del tutto mutato. I monarchici non sono più solo conservatori, essi sono anche rivoluzionari; imperocchè, mentre combattono per l'antica e sacra potestà imperiale, pugnano ancora per la libertà del pensiero e la indipendenza delle nazioni. A questa nuova lotta presero parte due figure titaniche, che le impressero la loro grande personalità. Da un lato, Tommaso d'Aquino scese a sostenere il principio guelfo della Chiesa, e nella teologia e nella scolastica sostenne l'idea della monarchia di Cristo, che avviliva la potestà regia, facendole conseguire dal papato un fondamento nazionale e giuridico, nello stesso modo che il corpo umano riceve dallo spirito la sua vitalità e dall'intelletto il suo impulso. Dall'altro lato, Dante Allighieri combattè quell'idea, opponendole nella sua Monarchia la dottrina della inalienabile integrità dell'impero e della missione di signoria universale data da Dio al popolo romano. L'impero, indestruttibile nella sua dignità divina, dovea diventare il cosmo della legge, del bene civile, della libertà, della pace e della civiltà. Rimesso l'impero nel suo antico diritto, il papato veniva pure restituito alla sua missione storica, che era di guidare le anime alla conquista del paradiso. Era naturale che la filosofia, risorgendo, prendesse di mira codeste istituzioni, che eran lì sotto gli occhi di tutti, e determinavano, per così dire, la vita di ogni giorno delle nazioni d'occidente. Bonifacio VIII e Giovanni XXII colle loro intemperanze diedero impulso a codeste investigazioni, e promossero il trionfo del nuovo giure sul dogma di Roma. Da questo trionfo uscì fuora la condanna pronunciata dalla scienza e dalla storia del potere temporale dei papi. Questa condanna rimase allora senza sanzione: ma il mancato eseguimento non infirmava l'autorità incontestabile del tribunale da cui era emanata. La stessa teologia apprestò le armi per convalidarla. La lotta che nel 1322 si accese fra Domenicani e Minoriti, è il preludio di quella, che, da lì a due secoli, trasse mezza Europa fuori del grembo della Chiesa, e fece consacrare dal diritto pubblico europeo il principio della libertà di coscienza. In questa lotta, i figli del monaco di Assisi compariscono quali precursori dei protestanti: infatti, le dottrine riformiste, che più tardi ebbero per apostoli Giovanni Wicleff, Giovanni Huss e Martin Lutero, erano state, già due secoli prima, proclamate dai Minoriti. Sotto la presidenza del generale del loro ordine, Michele da Cesena, quei frati aveano, l'anno 1322, nel sinodo di Perugia, dichiarato formalmente, che chi affermava Cristo e gli Apostoli non avere posseduto proprietà alcuna nè personalmente nè in comunanza, quegli non diceva eresia, anzi professava un principio di fede severamente cattolico. Le sacre scritture furono chiamate a somministrare le prove della coraggiosa dichiarazione: e fu da quel tempo, a cagione delle nuove investigazioni teologiche, che divennero popolari i motti evangelici: Regnum meum non est de hoc mundo: reddite quæ sunt Cæsaris Cæsari: Nemu militans Deo implicat se sæcularibus negotiis. Non seguiremo la polemica che allora si accese fra' teologi pel fatto di questa dichiarazione, nella quale, fra le molte cose


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