Racconti. Francesco Dall'Ongaro

Racconti - Francesco Dall'Ongaro


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professione d'istitutore conducevami in una piccola città degli Euganei, dove ho fatto le prime esperienze su quella società in miniatura che non ha ancora bastantemente appreso l'arte di mascherarsi. Al primo entrare in una delle principali famiglie, fra i consigli o, a meglio dire, fra gli ordini che il capo di casa aveva creduto necessario di darmi, ci fu quello di non frequentare la casa dei signori R***. Stupii sulle prime, perchè sapevo che i signori R*** erano stretti di parentela colla famiglia dell'ospite mio. Io non avevo ancora pensato che le avversioni più ostinate e più irragionevoli sono appunto fra quelli che sono congiunti di sangue o d'affinità. Rara inter fratres concordia, dice il Poeta; e questa fu la prima occasione in cui ebbi a conoscere la verità di quell'emistichio che passa oggimai per proverbio.

      Venni a sapere più tardi il perchè di codesta avversione tra le due famiglie. Le cagioni non erano state che un puntiglio, una gara di nobiltà, uno di que' nonnulla che ai nostri buoni nonni parevano una causa abbastanza grave per venire alle mani, per cominciare un'iliade di famigliari controversie e di domestici guai. Quelli che più ne soffrirono furono, come sempre, due buoni giovani, cugini in terzo grado, i quali si amavano cordialmente e sognavano da gran tempo una dispensa per annodare una più stretta parentela fra loro. Appunto nel concertare i preliminari di questa unione, l'amor proprio assai suscettivo dei due vecchi era stato punto, e quando si sperava che ogni ostacolo fosse tolto, le due parrucche scompigliate nella contesa giurarono di non mettere più piede nelle reciproche loro abitazioni, e fu proibito severamente ai due giovani di più pensare a codeste nozze, di più vedersi e di più parlarsi nè in pubblico nè in segreto. Vi lascio pensare le ciarle del paese, le recriminazioni vicendevoli dei due vecchi, gli scherni e gli epigrammi, i commenti delle brigate; e quello che più monta, le lagrime e il dispetto della giovane e del cugino.

      Codesta pubblicità, effetto inevitabile d'una rottura fra due famiglie nobili e principali d'una piccola città di provincia, accrebbe gli ostacoli a qualunque transazione pacifica; mentre sì l'uno che l'altro, oltre alla difficoltà di far tacere il grido dell'offeso amor proprio, non poteva a meno di non consultare fra sè che ne avrebbero detto nel mondo? Tra una ragione e l'altra, la scissura, benchè nata da lievi cagioni, s'andava rendendo di giorno in giorno sempre più irreparabile. Tutte le azioni anche più semplici e naturali, interpretate dagli animi male prevenuti, divenivano appicco a nuovi e cotidiani disgusti: i due vecchi non si guardavano più, ed erano divenuti l'uno all'altro stranieri, anzi più che stranieri, nemici. Quanti di quegli odii intestini ed ereditarii che tennero sì scandalosamente divise tante famiglie italiane, nacquero forse da cause non più importanti di queste!... Quando due animi si sono posti in sospetto, ogni giorno porta un'esca alla fiamma, e l'incendio diventa tale che non è più possibile spegnerlo.

      Tuttavolta non è a dire che i due vecchi parenti godessero nell'animo di tal disunione. Da lunghi anni stazionarii in quella piccola città, avevano contratte certe comuni consuetudini, che alla loro età non era più possibile abbandonare senza gran dispiacere.

      Il padre della fanciulla, il conte Filippo di M*** teneva, come si dice, la migliore, anzi l'unica conversazione della città. Ogni sera, mentre i più giovani parlavano di caccia o di quei nonnulla che bastano ad intrattenere la gioventù, egli col suo parente e con altri due rispettabili vecchi del paese celebrava il cotidiano tressette, il quale, a dispetto dell'adagio che lo vuole inventato da quattro mutoli, è sempre il campo di molte contese, massime quando i giuocatori pretendono di saperne di più. Il tressette di casa M*** era cosa importante: certe singolari fortune, certe ostinate disdette fornivano materia a gravi diverbi, e divenivano memorabili come la battaglia di Marengo o di Waterloo. Ora, dal giorno che le due famiglie s'erano disunite, mancò un campione alla classica partita, e non si trovò chi potesse supplirlo. Il conte Filippo passeggiava gravemente buona pezza della sera nella camera da giuoco, e s'annoiava mortalmente, perchè la sua senile attività mancava dell'ordinario stimolo. Voleva attaccare discorso colla figliuola, che silenziosa e pallida badava a' suoi ricami pensando all'amante; ma essa gli rispondeva col cuore raggruppato, e spesso prorompeva in lacrime, delle quali non voleva raccontare al padre la causa a lui ben nota. Allora il vecchio non aveva altro partito che il cane, e si poneva a scherzare con lui, e mormorava di tutto, e malediva il tempo, e il cuoco, e la mala annata, e l'imposta. Povero vecchio! e' si ostinava a non voler riconoscere la vera sorgente di tanti disgusti, e della vita misantropa ch'era costretto a menare.

      Una vita poco diversa conduceva il marchese Nicolò di R***, l'altra parrucca di cui vi parlavo. S'era provato a leggere, ma i suoi occhi non reggevano più ad una lunga lettura al lume della lucerna; andava al caffè, dove in mezz'ora sono esauriti tutti i discorsi, fino tutte le mormorazioni possibili. Allora si parlava d'araldica o di politica; si libravano le sorti dei Russi e dei Polacchi; e il Parlamento inglese e la Camera francese tremavano sotto a' giudizi ed ai tremendi scrutinii dei lettori della gazzetta privilegiata. Anche il marchese Nicolò si annoiava; ma come pensare al rimedio? avrebbe egli dovuto fare i primi passi ad una riconciliazione? non era egli forse l'offeso? Piuttosto morire! Un occhio perspicace e profondo avrebbe però potuto discernere sotto queste noie e questi proponimenti di sdegno eterno un mal dissimulato desiderio di pace.

      Se tale era la disposizione dei vecchi, pensate quella dei due poveri innamorati! Dover tutto ad un tratto rinunciare ad un matrimonio lungamente vagheggiato, ritenuto come sicuro, consentito tacitamente dagli stessi genitori che ora per un puntiglio d'etichetta, che non osavano neppur confessare, avevano mandato a monte! Dopo una consuetudine di più anni, dopo un amore nato ne' primi scherzi infantili, e nutrito da cotidiani colloqui, trovarsi disgiunti, ridotti a non parlarsi più, quasi a non più vedersi, se non in chiesa alla festa! povero Adolfo! povera Amalia!

      Egli aveva messo in opera tutti i mezzi possibili per rappattumare le cose; ma invano. Tentò di concertare qualche intelligenza con la fanciulla, ma ella era vegliata da un Argo; tentò di scriverle, e la lettera fu intercettata; si diede alla caccia, al biliardo, al vino, allo studio; niente giovò. Propose al padre di fare un viaggio, e il padre non era lontano dall'accordarglielo, giacchè vedeva ei pure che era un supplizio di Tantalo per esso il vivere costì; ma quando Amalia lo venne a sapere, cadde malata, e non si parlò più di viaggio.

      Appena ella potè riaversi, ebbe un breve colloquio col giovine in casa d'una discreta e benevola zia. Sieno benedette le zie! Vorrei riportarvi i loro discorsi, i loro lamenti, le loro proteste reciproche; ma voi già le sapete, miei buoni lettori, le sapete meglio di me. Quante cose la povera Amalia aveva a dirgli, quanti rimproveri a fargli, quanti progetti inutili a confidargli! Ma fra tutte codeste cose ce ne fu una di buono, e fu quella che entrambi i giovani vennero ad accertarsi della propensione dei due vecchi a rappacificarsi, ove si fosse trovato un qualche mezzo termine che salvasse i riguardi e i diritti di tutti e due. Promisero di tentare ogni argomento, e stabilito un mezzo di pronta e sicura comunicazione fra loro, presero commiato non senza che la buona parente gli avesse più volte avvertiti che l'ora era già troppo tarda e pericoloso l'indugio.

      Quella rottura fatale era successa nel maggio, ed eravamo già alla metà di dicembre che i due vecchi non s'erano mai parlati. Si avvicinavano le sante feste natalizie, giorni solenni in provincia, giorni principalissimi di tutto l'anno. Noi nelle grandi città a malapena ce ne accorgiamo, e se non fosse la sera di Santo Stefano, così importante per il Teatro, il Natale passerebbe come ogni altra festa dell'anno.

      Ma in provincia, dove le vecchie consuetudini si conservano ancora immutabili, in provincia le feste di Natale sono un avvenimento. Chi di noi non ricorda il ceppo enorme posto a bruciare sul focolare? Chi non ricorda i lauti pranzi della vigilia, i buoni augurii reciproci di famiglia a famiglia, la messa della mezzanotte, ec., ec.?

      Nella città dov'io mi trovavo, le feste di Natale erano più solenni ancora che non potreste pensare. Non so se vi è nota l'origine della parola complimento, parola ch'è già sulle bocche di tutti, ora in buono, ora in mal senso, secondo i casi. Quando papa Gregorio regolò i bisestili, espunse dal computo degli anni i giorni che sopravanzavano al calcolo, e questi giorni si chiamarono giorni di complemento. Siccome non appartenevano nè ad un anno nè all'altro, così tutto il mondo cattolico diede tregua agli affari e non pensò che a divertirsi in quel fortunato intervallo di tempo, che a dire il vero non ne meritava neppure il nome. Codesti giorni si passarono in visite, in augurii, in colloqui amichevoli, in cerimonie; cosicchè tutte quelle piacevoli occupazioni ebbero il nome di complimenti


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