Racconti. Francesco Dall'Ongaro

Racconti - Francesco Dall'Ongaro


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target="_blank" rel="nofollow" href="#ulink_d44ee970-9969-5fdd-a922-9a96a7b07e71">[2] Traduco dall'originale inglese il canto del Roger, perchè si vegga la conformità dei fatti, e perchè non manca di una certa originalità. Secondo lui il Conte sarebbe stato chiamato da lettere pressanti a Venezia; ma nel tempo che seguì il fatto che diede origine alla tradizione, i Collalto non s'erano ancora dati alla Repubblica, come appare alla nota precedente. Di qualche altra variante più o meno inesatta non faremo gran caso, giacchè sarebbe a desiderarsi che tutti i novellieri avessero altrettanto amore alla verità e rispetto all'Italia, quanta n'ebbe codesto poeta straniero. Ecco i versi:

      COLL'ALTO.

      Da questo speglio (la massiccia teca,

       In cui gareggian le materie e l'arte,

       Mostra che molte s'affacciaro in lui

       Nobili dame del vetusto ceppo),

       Da questo speglio, ora negletto, un giorno

       Cosa apparì che ad un delitto atroce

       Ed a lunghi dolori origin dette.

       Da quel dì vi svolazza il vipistrello,

       E se taluno al suo nemico impreca:

       Sia la tua casa desolata, esclama,

       Come Coll'Alto. —

      I grigi merli infranti

       Erge il castello sul pendìo d'un monte

       Siccome un nido d'aquile, e prospetta

       La tarvisina sottoposta Marca.

       Il maggiordomo mi guidò nell'erma

       Camera della dama ove dei prischi

       Addobbi rimanea splendido avanzo

       Qualche tappeto istorïato e i casi

       Di Lancillotto e di Ginevra in mezzo

       Alle selvette dei trapunti arazzi.

       Argenteo arnese al mulïebre sacro

       Mattutin culto v'ammirai pur anco

       Di cesel fiorentino opra vetusta,

       Ove putti e delfini, e frutti e fiori

       Mescea forse Ghiberti e Benvenuto.

       Dal soffitto pendeva aurata gabbia,

       Dove loquace peregrino augello

       L'ale agitando di smeraldo, al cenno

       Della padrona modulava il canto

       Che a lei piacesse. —

      Il maggiordomo, i radi

       Grigi crini scotendo, i fasti antichi

       Mi narrava e i mirabili portenti

       Propagati nel vulgo. Il sol cadente

       Io mirava frattanto, ed ei seguìa.

      Avea, gran tempo è corso, una leggiadra

       Damigella a lei cara, e cara a tutti

       Per l'alma ingenua e come giglio pura.

       Eran cresciute insieme, e alcun mirando

       La giovinetta e i suoi modi soavi,

       Mormorava tra sè: non è costei

       Nata in sì basso ed umil loco. Un vago

       Amor di solitudine, un istinto

       Di peregrine fantasie nel folto

       De' bruni boschi la traea sovente.

       Onde chi la vedeva errar solinga

       Nell'ora istessa, candida la veste,

       Candido il viso, la chiamò col nome

       Di Donna Bianca.... ma che vado io mai

       Novellando, o signor? Già cade il giorno. —

      Su quella sedia assisa era la dama,

       Su quella sedia stessa, e dietro a lei

       La vaga ancella le annodava in molli

       Trecce la chioma. — Da quell'uscio il Conte

       Apparì d'improvviso, e da pressanti

       Lettere d'Adria alla ducal cittade

       Pur mo' chiamato, a congedarsi prese

       Dalla nobile sposa.

      Ahi! ma non era

       Per la sposa lo sguardo ed il sorriso,

       Segno di mutua intelligenza arcana

       Che alla gelosa dama in quel momento

       Lo speglio rivelò! — Chi sa? Fu forse

       Un demone crudel che si frappose

       Fra il lucido cristallo, e gli occhi suoi.

       Un demone crudel che si diletta

       Volgere in fiel le brevi gioie umane!

      Vide, o veder credette — ed all'offesa

       Rapida, atroce, in quella notte istessa

       Susseguì la vendetta. Anco la luna

       Dal monte Calvo non sorgea, nè 'l lupo

       Cominciava a ulular sotto la torre,

       Che la infelice giovanetta a forza

       Era tratta a morir!

      Stilla di sangue

       Non fu versata, nè veleno od altro

       Mortifero strumento indizio diede

       Dell'orrendo supplicio a cui soggiacque.

       Non un capello le fu torto: fresca

       Siccome un fior, piena di vita, calda

       Del primo foco giovanil, murata, —

       Murata fu nella parete, ed orma

       Pur non rimase dell'orribil tomba

       Che viva e palpitante la rinchiuse,

       Rifatta a piombo e a squadra!... Or se vi aggrada

       Visitar la funerea cappella,

       Di grado in grado scenderem.

      La notte

       Nella marmorea nicchia immota e bianca,

       Qual se le pietre innanzi a lei sien tolte,

       Ricomparisce in atto di preghiera

       E lieve lieve.... voi ridete? Oh! fosse

       Pur una fola l'apparir di lei! —

       Lieve dal marmo si distacca e fugge

       A traverso le selve e le montagne

       Come spirto ramingo. Il cacciatore

       Che il dì precede, o il boscaiuol che all'opra

       S'affretta, spesso la sorprende e grida,

       Segnandola da lungi: È Donna Bianca!

      Roger Italy.

       Indice

      Chi non abbia vissuto alcun tempo in una piccola città di provincia, non può dire di avere conosciuto intimamente nè il mondo nè l'uomo. Nelle città capitali si conosce la società, si conoscono gli uomini affatturati e mascherati dalle sue convenienze; ma è ben raro che si vegga a modo ciò che sentono e ciò che pensano: essi hanno tutti un contegno uniforme e convenzionale che li rende quasi uguali e senza alcun tratto risentito e caratteristico nella loro morale fisonomia. Quindi il poeta, il pittore, il novellista, uopo è che cerchino i loro tipi in provincia, dove si è conservato tutto ciò che v'era di poetico e pittoresco negli antichi nostri costumi.

      Io


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