Racconti politici. Ghislanzoni Antonio
o sdegnoso.
— To'!... chi vedo! anche voi, signor De Mauro!... — esclamò l'altro che veniva dalla stazione. — Si è mai dato uno spettacolo più sublime di questo?... Scene da far piangere i sassi... e nessuno piangeva!... Che giovani!... che faccie!... che slancio!... Voi li avrete veduti quando montarono nei vagoni... Pareva che prendessero d'assalto una fortezza!...
— Se li ho veduti! — rispose il De Mauro a voce alta — come volete che io non li abbia veduti, mentre c'era anche lui... quel bel mobile di Edoardo!
— Come! vostro figlio?...
— Sicuramente! mio figlio... Non avevo che quello... e non potevo dare di più... io!
Alcuni, che si erano fermati ad udire, si partivano esclamando:
— Anche lui! un figlio unico!... un milionario!
E il signor De Mauro, per la prima volta in sua vita, si illuse a tal segno da credersi un grande patriota, un martire della indipendenza italiana.
PARTE TERZA Entusiasmo.
I.
La piccola città di... non aveva dato che cinque volontarii, avanzi anche questi dell'illustre drappello di Palermo e di Milazzo. — Era apatia? era diffidenza? Fatto è che una volta partiti quei cinque valorosi soprannominati i cinque abbonati delle vittorie garibaldine, non si ebbe più sentore in città che altri intendesse seguirli. A spegnere l'ardore della gioventù erano giunte — dicevasi — due lettere: l'una da Como, l'altra da Gallarate, nelle quali veniva dipinta coi più sinistri colori la situazione dei volontari già accorsi ai depositi. I preti e i così detti cittadini di senno esageravano le dicerie, fors'anche le sopracaricavano di calunnie, a quale scopo si intende.
La popolazione di... nelle prime settimane di giugno presentava ancora il suo aspetto normale. Alla stazione della ferrovia, malgrado il quotidiano passaggio delle truppe che traevano al Mincio, il concorso dei curiosi non era di molto accresciuto.
Volete di più? — Una compagnia comica era venuta ad installarsi nell'unico teatro della città, e mentre nelle capitali più popolose d'Italia si chiudevano tutti i luoghi di pubblico divertimento per mancanza di spettatori — quella piccola compagnia coglieva applausi e danaro.
Come vedete, la città di... rappresentava un anacronismo di storia contemporanea.
Nullameno, le produzioni drammatiche del piccolo teatro non mancavano di riflettere l'attualità co' suoi colori appassionati e vivaci — e gli avvisi quotidiani, da oltre una settimana, non avevano mai cessato di promettere un dramma bellicoso, scritto appositamente da penna concittadina per la benefiziata della prima attrice. Questo nuovo dramma si annunziava col titolo: La partenza dei Volontari.
In una città più infervorata di patriottismo poteva bastare un tal titolo a chiamare in teatro un insolito concorso. Ma qui la maggiore attrattiva dello spettacolo era riposta nella circostanza dell'autore concittadino. Un istinto maligno di curiosità e di invidia si era manifestato all'annunzio del nuovo dramma. La rappresentazione era attesa con ostile impazienza.
Non vi è città così meschina, starei per dire non vi è in Italia borgata o paese, che non abbiano il loro poeta disconosciuto e tribolato, qualche volta detestato dalla intera popolazione. — Gli è già molto che nei grandi e popolosi centri, il poeta e l'uomo di lettere vengano tollerati per la compassione che ispirano. Nelle piccole città predominate dalla crassa possidenza, nei borghi ove è sindaco il droghiere, dove i consiglieri della Giunta sono anche membri della fabbriceria, il poeta e il letterato rappresentano l'abbominio.
Povero Lanfranchi! — L'autore del nuovo dramma La partenza dei Volontari si chiamava Eugenio Lanfranchi — E all'età di venticinque anni egli aveva lasciato la sua piccola città per recarsi a Milano, dove sperava co' suoi talenti e col suo sviscerato amore per le lettere di raccogliere simpatia e protezione. — Era partito con due romanzi nella valigia e circa duecento franchi nel portamonete. Tornando, dopo un mese, alla terra natale, egli possedeva ancora i due romanzi, ma i suoi duecento franchi erano rimasti a Milano. Quand'egli scese alla stazione, taluni ebbero a notare con infinita compiacenza ch'egli era alquanto dimagrato, che indossava il medesimo abito col quale era partito, e che una delle sue scarpe mostrava la lingua. — La città prima di sera fu tutta piena di tale avvenimento — e la gioia fu universale. Due mesi dopo, egli fu costretto ad accettare un posto da scrivano nel consiglio del Comune. Nel deliberargli quell'impiego, al quale andava annesso lo stipendio di lire quaranta al mese, il Sindaco fece inserire nel resoconto della seduta che ciò si faceva onde togliere dall'inopia un giovane di condizione civile, il cui padre si era reso benemerito della città dirigendo per oltre venticinque anni le apparature per la funzione del Corpus Domini.
II.
La rappresentazione del nuovo dramma era imminente. I comici, nel corso delle prove, si erano mostrati oltremodo soddisfatti dell'autore, preconizzandogli il più felice successo. Nullameno, all'avvicinarsi di quell'ora solenne e terribile nella quale il pubblico è chiamato a proferire il suo verdetto, Eugenio Lanfranchi sentì il bisogno di sottoporre il suo lavoro drammatico al giudizio di un amico. — Ma dove trovare un amico? — In città non vi era che uno solo, cui il Lanfranchi osasse dare questo nome — un altro poeta più giovine di lui e meglio favorito dalla fortuna, in quanto non avesse bisogno di esercitare la letteratura per vivere, o di subordinarsi, per necessità dell'impiego, alla dispotica albagia dei suoi concittadini.
Questo giovane poeta si chiamava Carlo De Santi. Toccava appena i venti anni, e faceva il suo corso di studi all'università di Pavia; ma da qualche tempo era tornato alla città natale per rimettersi da una grave malattia che l'aveva condotto a filo di vita.
La famiglia De Santi non aveva mai veduto di buon occhio l'intrinsichezza dei due giovani. Come abbiamo veduto, il Lanfranchi passava per un cervello matto, per un discolo. Ma forse la sua povertà più che la sua cattiva fama lo facevano reputare un soggetto pericoloso. Carlo ed Eugenio, all'epoca delle vacanze autunnali, si vedevano rare volte, di nascosto, attratti da quella omogeneità di caratteri e di studii che esercita un potere irresistibile negli anni della giovinezza.
Il Lanfranchi non aveva mai osato presentarsi alla casa dell'amico, dacchè questi era venuto da Pavia per rassodare la sua convalescenza. Il prepotente bisogno di interrogare il di lui giudizio sulla nuova produzione drammatica, prima di affrontare quello del pubblico, gli ispirò il coraggio di dirigersi a quelle soglie, malgrado il pericolo di vedersi respinto.
Entrò col cuore trepidante — salì le scale a celere passo — e ottenne di presentarsi all'amico, il quale non aveva ancora abbandonata la sua camera da letto.
Poichè i due giovani furono lasciati soli, essi presero a parlare con quell'enfasi esuberante, che fa sorridere gli scettici incalliti nella apatia, ma che è pure la espressione più naturale della giovinezza che sente e che crede.
III.
— Ti sei fatto aspettare — cominciò Carlo con accento di mite rimprovero. — Son qui da dieci giorni, e il buon Giuseppe ti avrà portato i miei saluti e ti avrà detto come io desiderassi... una tua visita...
— Non ebbi coraggio... Mi avevano detto che la tua famiglia... il medico... che so io... non permettevano ai tuoi amici di venirti a trovare.... Come stai?... Molto debole, a quanto pare...
— Sì... debole ancora... molto debole!... Ma tu ricordi la visita di Bruto a Ligario... Se tu vieni a invitarmi perchè io ti accompagni laddove in questi giorni debbono accorrere tutti gli Italiani che sentono amore di patria, fammi vedere una camicia rossa ed un fucile — A quella vista... io riacquisterò in un momento le forze perdute... sarò guarito completamente... e marceremo, perdio!... e ci batteremo anche noi come si battono i leoni!
Le guancie di Carlo si