Piccoli eroi: Libro per i ragazzi. Virginia Treves

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Indice

      La famiglia Morandi era raccolta nel salotto intorno alla tavola rischiarata da una lampada appesa al soffitto. Il signor Morandi leggeva il giornale, Vittorio guardava un libro illustrato, Maria accomodava della biancheria insieme all'Angiolina che aveva chiesto di aiutarla, mentre Giannina pregava Elisa, che non ne avea voglia, di farle dei vestiti per la bambola.

      —Andiamo,—disse Maria,—falle questo piacere.

      —M'annoio,—disse Elisa.

      —Ti annoierai di più a non far nulla,—soggiunse, poi rivolgendosi a

       Carlo disse:—Tu spero ti metterai a studiare il tuo latino.

      —Che noia! sempre questo eterno latino!—rispose il ragazzo facendo spallucce;—io già, sai, non m'importa di diventare uno scienziato, voglio essere un uomo d'azione, un gran generale, un eroe: Alessandro, Giulio Cesare, Napoleone; ecco i miei ideali, al diavolo i libri, lasciatemi fare il soldato,—esclamò Carlo cogli occhi lucenti e il viso in fiamme, tutto eccitato da quella giornata passata all'aria aperta.

      —Sì,—disse Maria ironicamente,—dopo bisognerà improvvisare una guerra per mettere il tuo eroismo alla prova. Ora, mio caro, il mondo è cambiato, e al giorno d'oggi la parola eroe ha un significato molto diverso da quello che aveva una volta; eroe si può esserlo in tutti i luoghi, in tutte le professioni, alla scuola, all'officina, fra le pareti domestiche, purchè uno dimentichi sè stesso, rinunci al proprio piacere, alla propria volontà, per un alto ideale, per il bene del suo paese, della propria famiglia e dei suoi simili, e forse è un eroe tanto più grande, perchè il suo eroismo è ignorato e non vi è spinto dall'idea della gloria che è sprone a grandi sagrifizi. Se vorrete, vi leggerò quando sarete stati ubbidienti, alcune storie vere, ch'io ho raccolto, di eroismi ignorati, nella speranza che possano esservi utili; sarà un modo di occupare queste serate d'autunno.

      —Brava!—disse Vittorio.—Che gioia! I tuoi racconti mi piacciono tanto.

      —Vediamo questi eroi!—disse Carlo,—anzi, dovresti cominciare subito.

      —Per questa sera,—rispose Maria,—contentati di studiare; il mio manoscritto è in fondo al baule.

      —È tanto noioso questo latino! Ora poi che sono in vacanza….

      —Ebbene lascia stare,—disse il signor Morandi interrompendo la sua lettura,—ti prometto che se non passi l'esame ti mando a fare il ciabattino.

      I fanciulli diedero in una risata, mentre Mario continuava colla matita a scarabocchiare sulla carta.

      —Ecco il tuo ritratto,—disse a Carlo quando ebbe terminato.

      Le ragazze ansiose s'avvicinarono a Mario e si misero a ridere con tutta la forza dei loro polmoni, alla vista d'una figura che avea un po' il profilo di Carlo, seduta al bischetto con un paio di scarpe in mano tirando lo spago; con sotto la scritta: l'eroe dello spago.

      Carlo, indispettito, diede uno schiaffo a Mario che si ribellò, e incominciarono a picchiarsi e a prendersi per i capelli.

      Maria li divise e rivoltasi a Carlo disse tranquillamente:

      —Un eroe che batte un ragazzo più giovane di lui! Che vergogna!

      Carlo rimase mortificato da quelle parole, ma tenne tutta la sera il broncio al fratello, il quale andava dicendo che, volere o non volere, avrebbe illustrato tutti gli avvenimenti e i tipi che gli sarebbero passati davanti durante le vacanze e i racconti che si sarebbero fatti intorno a lui. Se suo fratello voleva essere un eroe, egli aspirava alla gloria d'un grande artista e voleva esercitarsi a cogliere il vero che gli cadeva sott'occhi.

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      I ragazzi non si dimenticarono la promessa di Maria e non la lasciarono in pace finchè non cercò il manoscritto. La sera dopo quando furono tutti radunati intorno alla tavola la supplicarono impazienti di incominciarne la lettura.

      Aveva appena lette le prime parole, che entrò don Vincenzo assieme al professore Damiati.

      —Continui pure,—dissero.

      Maria voleva sospendere la lettura dicendo che erano storielle scritte per i ragazzi e non potevano interessare persone come loro.

      Ma non ci fu verso, vollero che continuasse, altrimenti minacciavano di andarsene.

      —Sono tutta confusa,—disse Maria,—di avere un simile uditorio, non so più dove sia rimasta,—soggiunse riprendendo il manoscritto.

      —Incominci dal principio,—disse il professore,—vogliamo sentir tutto, e mentre Mario stava temperando la matita per illustrare il racconto, come diceva lui, tutti gli altri fecero silenzio per ascoltare la lettura di Maria.

      Essa incominciò colla voce un po' tremante, ma chiara e armoniosa, a leggere il suo racconto.

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      Pierina era la figlia, del guardiano della casa cantoniera numero 6, posta presso ad un modesto villaggio, sulla via del Gottardo.

      Fra i primi ricordi dell'infanzia, al primo risvegliarsi della sua intelligenza intorpidita, essa rammentava che parecchie volte al giorno, suo padre usciva con qualche cosa arrotolata oppure con un lanternino in mano, e pochi momenti dopo, si sentiva uno strepito, che pareva il terremoto e faceva scuotere fino dalle fondamenta la piccola casa, poi il rumore si affievoliva, finchè si dileguava in lontananza. Non sapeva che cosa fosse, ma quando usciva il padre, essa stava attenta, aspettando il solito rumore.

      Una sera che il babbo era assente, ed essa un po' irrequieta, la mamma accese il lanternino, la prese fra le braccia e uscì sulla strada.

      L'impressione che provò quella volta non la dimenticò più.

      Vide lontano una massa scura, grande, gigantesca, con due occhi rossi infocati, che sbuffava e mandava lampi di fuoco, come un mostro fantastico, e quella massa nera veniva precipitosamente verso di loro come se volesse ingoiarle, stritolarle. Nascose la testa sulla spalla della mamma, chiuse gli occhi e si mise a gridare.

      La mamma non si mosse: stette ferma al suo posto finchè il mostro fu passato e si sentì il rumore diminuire in lontananza e ad un certo punto cessare.

      Pierina continuava a piangere e a tremare.

      —Bisognerà bene che ti abitui al passaggio del treno, mia piccola paurosa,—le disse la madre riconducendola in casa.

      E infatti s'abituò in breve a quel rumore, anzi quando cominciò a camminare e sentiva lo strepito della macchina, voleva correr fuori a veder il vapore, e avrebbe voluto toccarlo, e colle manine tese faceva festa al luccicore dell'ottone intorno alla locomotiva, seguiva cogli occhi la colonna di fumo, ed esclamava guardando in alto: bello! bello! In poco tempo, quell'oggetto che l'aveva tanto sgomentata era divenuto il suo divertimento, anzi, quando lo sentiva in distanza, correva sulla strada ferrata in mezzo alle rotaie, ballando e saltando dalla gioia.

      E allora la sua mamma, tutta agitata, usciva a prenderla fra le

       braccia e le dava tante busse da farla strillare.

      —Non devi andar sulla strada quando viene il treno, hai capito?—le

       diceva.

      Ma Pierina non capiva nulla, soltanto sapeva che quando andava sulla strada per far festa al vapore, prendeva le busse che le facevano male, e un po' alla volta perdette l'abitudine d'andarci, e si contentò di salutare il treno dalla finestra o dalla corte, davanti alla casa.

      Fattasi


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