Minerva e lo scimmione. Ettore Romagnoli
l'alba, indossare, grugno di corno, l'ermellino del giudice. Non può essere avvenuto. Ma sussiste il fatto che anche questi Colleghi, e massime i due a cui l'età e il prescelto magistero di vita avrebbero dovuto consigliare maggior riserbo, non disdegnarono stringere le armi ignobili e frodolente offerte ad essi dalla combriccola anonima. Onde insinuazioni, personalità, ed equivoci si susseguirono monotonamente e malignamente nelle suddette interviste.
Ora che cosa dovrei fare io? Opporre insinuazione ad insinuazione, impertinenza ad impertinenza, equivoco ad equivoco? No no, cari i miei classicisti: codeste sono armi da non invidiare al buffone Sarmenta, da lasciare ai Messi Cicirri, e non da impugnarle i galantuomini. Vero è che il troppo stroppia, e che alla lunga anche un galantuomo potrebbe seccarsi. E allora vorrebbe essere un'altra musica. Ma, anche una volta, tollera, tollera, mio cuore! Io non nutro il menomo rancore verso queste brave persone che tanto mostrano di nutrirne verso di me: io non ho interessi da difendere né vendette da esercitare: né, d'altra parte, ignoro che, quando si combattono idee troppo diffuse e rispettate, conviene usare molta pazienza; e poi le aspre polemiche inducono anche i piú misurati a varcare i confini delle proprie convinzioni e della verità. E perciò mi limito a denunciare, e, ripeto, per la salute nostra intellettuale, questi metodi polemici, che riescono qualificati con l'esporli, e a richiamare quei due piú accaniti Colleghi a certe norme di correttezza che mai non dovrebbero essere violate fra persone di garbo. Che maniera è codesta, quando altri esprima idee contrarie alle vostre, non affrontare direttamente né combattere quelle idee, bensí fare il processo alle intenzioni che egli ebbe, e figurarvele e dichiararle all'Italia basse e volgari! Io credo erronei e nefasti per i nostri studî molti principî nei quali voi ciecamente giurate; e li combatto con tutte le armi lecite della polemica, dalle quali niuno pretese mai di escludere né l'ardore né l'ironia né il sarcasmo. Ma io non ho insinuato mai che a sostener quei principî vi abbia indotto interesse materiale o altra passione meno che nobile: io non ho mai proclamato che voi non cerchiate e non amiate la verità.
Se non che, Signori miei, la verità non è oggetto da farne monopolio né voi né nessuno. L'amore che io nutro per essa è puro e profondo e senza macchia: e non tollero che altri ne dubiti. Se a voi giova costruirvi un sacello, collocarvi un idolo, adorarlo genuflessi, è affar vostro, e buon pro' vi faccia. Ma se altri rifiuta di prostrarsi al vostro fianco, nessuno vi concede il diritto di gridare al sacrilegio. La verità che io vedo chiara, che io credo utile, ho non solo il diritto, ma il dovere di dirla, e dirla forte. E questo diritto lo rivendico per me e per tutti. Non son piú tempi da conventicole, da chiesuole, da tirannidi letterarie. Cessino una buona volta le angherie, le imposizioni, la tracotanza. E cessi il vergognoso ricorrere alle arti subdole, alle vie traverse, alle opposizioni materiali. Le battaglie dell'intelletto vogliono esser vinte con l'intelletto. Chi è incapace di adoperare quest'arma, si ritiri dal campo.
* * *
Or lasciamo queste miserie. Insieme con le insinuazioni, potete rispondermi, abbiamo esposto argomenti. Confutateli, è la vostra volta.
Ecco. Prima di tutto debbo rammentarvi una verità elementare, della quale, mi sembra, avete smarrito il ricordo: ed è che le dispute non si risolvono a colpi di maggioranza. Per dimostrare che io fossi nel torto, si sono moltiplicate le interviste: mi si è sguinzagliata contro una clamorosa turba di untorelli filologi: si sono invocati referendum, rimasti in asso, credo, pel buon senso degli interpellati: l'Atene e Roma, palladio in Italia degli studî classici, s'è radunata, e ha deliberato di mobilitare contro lo Scimmione le fitte caterve dei suoi soci.
Ebbene, e che cosa significa il giudizio delle moltitudini in questioni di pensiero? Cinquanta argomenti cattivi non ne scalzano uno buono. E un argomento, buono o cattivo, ripetuto cinquanta volte, vale per uno, e non per cinquanta.
Ora, e negli opuscoletti, e nei giornaletti, e nelle intervistette, si sono sempre ripetuti, con fastidiosa insistenza, i medesimi argomenti o pseudo argomenti. E neppure su questi rispondo a voi direttamente, per parecchie ragioni, che enumero.
Prima e capitale, perché rispondo solo a chi mi interpella gentilmente, e non a chi vuol farmi il sopracciò; a chi cerca la discussione, e non a chi provoca la rissa.
Seconda, perché, o non vi siete data la briga di studiare attentamente il mio libro, e quindi non ne avete afferrate le idee; o avete fatto finta di non capirle. Sicché m'avete fatto tacere quello che ho detto espressamente, e dire quello che non ho detto, e avete combattute le mie idee dopo averle divelte dalle radici ond'esse derivavano ogni loro vigore. Or queste non sono le armi dei logici, bensí dei sofisti: non di chi cerca sinceramente la verità, bensí di chi vuole avere ragione ad ogni costo. Ma io cerco la verità, e non intendo impegolarmi in gare di sofismi.
Terza ragione: perché i vostri argomenti sono viziati da un peccato logico originario, che stempera, anzi distrugge ogni loro vigore. Tutti, infatti, i miei oppositori concordano in un punto: nell'ammettere come assioma la incrollabile solidità del metodo filologico scientifico. E l'un d'essi lo paragona ad una piazza forte, nella quale chi c'è, è in una botte di ferro, e chi è fuori, ogni acqua lo bagna. E un secondo lo assimiglia al siero Behring, che sarà tedesco, ma se i nostri bambini sono attaccati dalla difterite, siero Behring deve essere. E un terzo, piú fantasioso, con peregrina immagine squisita, sentenzia che chi vuole rinunciare a questo metodo «per far dispetto ai tedeschi, fa come quel marito che per far dispetto alla moglie si privò da sé stesso della possibilità d'essere piú mai un valido marito». Dove, fra parentesi, e con la debita deferenza, faccio osservare al Collega, che con questo paragone egli viene ad assimigliare gli uomini e i metodi che intende esaltare, ad organi del nostro corpo, i quali, pure essendo utilissimi e nobilissimi, da tempo immemorabile vengono assunti come termini di confronto a significare, oh ingratitudine umana!, la cocciutaggine e la mellonaggine. Occhio alle immagini, caro Collega! Bisogna saperle acchiappare, se no mordono la mano al serparo.
Dunque, filologi belli, voi partite dal postulato che codesto «metodo scientifico» sia piazzaforte, siero salutifero, succo vitale. Ma io penso di aver dimostrato nel mio libro che esso è invece pantano, tossico e marciume. Quindi, se volete confutarmi, dovete prima dimostrare falsa questa mia dimostrazione. Hic Rhodus, hic salta. Non l'avete fatto, e siete caduti fin da principio in una solenne petizione di principio.
Capisco benissimo. Voi potete credere e lasciar credere che l'equazione filologia = scienza, se non è assiomatica per me, è assiomatica per voi e per tutte le persone di mitidio, e assumerla come principio, e, senza curarvi della mia dimostrazione, dedurne giú giú, e farne luccicare, agli occhi dei creduli, le meravigliose conseguenze. Benissimo. Ma quello storico struzzo, nascondendo la testa sotto l'ala, non eliminò la presenza del cacciatore.
Questa volta poi i cacciatori sono due. Già. Mentre io, investito da voi e dalla stridula turba dei vostri accoliti, giravo intorno lo sguardo, sgomento, costernato, esterrefatto della mia solitudine, vidi puntar lo schioppo contro di voi tale che non avrei mai supposto di potermi trovare compagno a simil caccia: vo' dire Benedetto Croce.
Benedetto Croce, per l'appunto: che, dopo un periodo non breve di germanofilia intellettuale, da qualche tempo va prodigando graditissimi esempî di resipiscenza patriotica. E che, in un libro uscito di questi giorni, si esprime cosí, parola per parola, intorno al «metodo filologico scientifico». E porga orecchio anche qualche suo cagnotto, che, scambiando le idee con gli uomini, scese a spezzare anch'egli una lancia in difesa della bestialità filologica.
«L'ardimento di respingere addirittura l'intromissione del pensiero dalla storia, che era mancato agli storici diplomatici (perché mancava loro la necessaria innocenza a tale ardimento), l'ebbero invece i filologi, innocentissimi. E l'ebbero tanto piú facilmente in quanto l'opinione di sé medesimi, anteriormente modesta, si era assai accresciuta e aveva gonfiato i loro petti, per il grado di perfezione a cui era pervenuta l'indagine delle cronache e dei documenti, e per l'accaduta fondazione (che non fu, a dir vero, creazione ex nihilo) del metodo critico o storico, che si esplicava nella sottile e accurata genealogia e riduzione delle fonti, e nella critica interna dei testi. E tanto piú facilmente codesto orgoglio di filologi prevalse, in quanto il perfezionamento del metodo accadeva in un paese come la Germania, dove la mutria pedantesca fiorisce meglio