Minerva e lo scimmione. Ettore Romagnoli

Minerva e lo scimmione - Ettore Romagnoli


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la «scientificità» è assai idoleggiata, e questa parola viene ambiziosamente adoperata per ogni cosa che concerne i contorni e gli strumenti della scienza vera e propria, come è il caso della raccolta e critica delle narrazioni e documenti. I vecchi eruditi italiani e francesi che al loro tempo fecero compiere al «metodo» avanzamenti non minori di quelli che si ebbero poi nel secolo decimonono in Germania, non sognavano di produrre cosí «scienza», e molto meno di gareggiare con la filosofia e la teologia, e di poterle scacciare e surrogare col loro metodo documentario. Ma, in Germania, ogni meschino copiatore di testi e collettore di varianti e scrutatore di dipendenze tra i testi e congetturista del testo genuino, si eresse a uomo di scienza e di critica, e osò non solo guardare a faccia a faccia, ma con superiorità e dispregio, come uomini «antimetodici», uno Schelling o un Hegel, un Herder o uno Schlegel. Dalla Germania si diffuse questa mutria pseudoscientifica negli altri paesi di Europa, e ora anche in America: sebbene in altri paesi incontrasse con piú frequenza spiriti irreverenti, che ne risero. E allora per la prima volta si manifestò in grado insigne quel modo di storiografia che ho denominato «storia filologica» o «erudita»; cioè si presentarono camuffate come storie, e come sole degne e scientifiche storie, le piú o meno giudiziose compilazioni di fonti, che pel passato si dicevano Antiquitates, Annales, Penus, Thesauri, e simili. La fede di quegli storici era riposta in un racconto, del quale ogni parola potesse appoggiarsi a un testo, e niente altro ci fosse che quanto era nei testi, sceverati e ripetuti, ma non pensati dal filologo narratore: la loro speranza, nel poter assurgere a poco a poco, movendo da compilazioni circa singoli tempi, regioni ed avvenimenti, a compilazioni comprensive, riassumenti di grado in grado le meno comprensive, sino a ordinare l'intero sapere storico in grandi enciclopedie, delle quali forniscono saggi quelle, ora sistematiche ora lessicali, che sono state messe insieme da gruppi di specialisti, guidati da un direttore specialista, per la filologia classica, romanza, germanica, indoeuropea e semitica. A togliere aridità ai loro lavori, i filologi s'inducevano talvolta a mettervi qualche ornamento di commozioni affettive o di sguardi ideali; e attingevano le une e gli altri ai loro ricordi ginnasiali, alle frasi della filosofia di moda e alle comuni disposizioni sentimentali verso la politica, l'arte o la morale. Ma tutto ciò facevano con molta moderatezza, per non perdere la reputazione di gravità scientifica e per non fallire al rispetto dovuto alla scientifica storia filologica, che disdegna i vani ornamenti onde si compiacciono filosofi, dilettanti e ciarlatani».

      Che cosa ne dicono gli illustri zelatori della filologia scientifica? Sembra o non sembra un succoso riassunto di Minerva e lo Scimmione?

      So bene che, un passo piú in là da questa concordia iniziale, fra Croce e me dovrà incominciare il dissenso. Il Croce piú d'una volta si dimostrò e si dichiarò disposto a tollerare che questo gramo filologismo séguiti a soppiantare e storia e letteratura e filosofia nelle Università, che egli sembra concepire come una specie di asilo della mediocrità abbandonata; mentre io credo che nell'Università abbia diritto di cittadinanza soltanto la vera scienza; e la scienza comincia dove comincia il pensiero. Ed anche intorno ai modi onde il pensiero deve dar vita alla mole inerte dei dati filologici, non andrò certo d'accordo col pensatore d'Abruzzo. Egli vagheggia moduli e metodi spremuti dal metafisico mosto alemanno: io credo, ed esporrò altrove le ragioni di questa mia fede, che la salvezza dei nostri studî dipenderebbe da un vigoroso colpo di barra che riconducesse nettamente il pensiero italiano nel gran solco che da Leonardo e Galileo giunge a Romagnosi, a Cattaneo, a Giuseppe Ferrari (calma, oh nuovi hegeliani!), per poi confondersi in un grande estuario di non infeconde ma torbide acque germaniche. Ma questo non vuol dire. La mira al «metodo scientifico» è aggiustata bene, la schioppettata colpisce in pieno. Struzzo, béccatela.

      Ultima ragione per cui non rispondo al quartetto dell'Istituto. Perché le loro argomentazioni e le loro ragioni vennero ripetute, ma con la schiettezza che distingue chi cerca soltanto la verità, col garbo che si addice a persona civile, da un altro Collega, dal professore Ernesto Buonaiuti dell'Università di Roma. Al quale, poiché egli dichiara che le sue pagine rispondono all'invito da me rivolto agli studiosi nella prefazione al mio libro, mi parrebbe scortesia non rispondere[1].

      E in tale risposta sarà implicita la confutazione ai meno garbati Colleghi.

       * * *

      Chiarirò prima, brevemente, un paio di malintesi. Il Buonaiuti mi fa dire che «il ciclo transitorio destinato allo svolgimento della pura ricerca filologica è oramai concluso per sempre». Ma io non ho detto questo. Ho detto che il sano lavoro filologico che si poteva fare intorno ai grandi classici è quasi interamente esaurito. Ma siccome riconosco che il primo studio d'ogni disciplina storica, cioè la raccolta e l'epurazione del materiale, deve essere severamente filologico; è chiaro che, finché ci saranno codici nuovi da esplorare, finché verranno alla luce nuove iscrizioni od epigrafi, sinché l'Egitto seguiterà ad offrirci i nuovi doni, che, per dire la verità, a me non sembrano tanto magnifici quanto sembrano al Buonaiuti; in tutti questi casi, anche secondo me, il metodo strettamente filologico troverà la sua ragion d'essere nobile e legittima.

      Però, senta il Buonaiuti. Queste ragioni le vada a riferire a qualcuno dei filologi autentici, degli zelatori del puro metodo filologico scientifico, e sentirà. Si sentirà dare del dilettante. Che papiri d'Egitto! La filologia ripete la sua ragion d'essere da sé medesima, come il Creatore dell'universo. È fine e non già mezzo. Manipolare i testi, mantrugiarli, emendarli, supplirli, potarli, infiocchettarli, allontanarsi dai codici, riavvicinarsi ai codici, riallontanarsene, ririavvicinarcisi, stampare i membri ritmici l'uno dietro l'altro, in versi lunghi, ridurre un'altra volta i versi lunghi in membretti e sottomembretti ritmici, questo ibis redibis è il vero e proprio lavoro della filologia. La filologia fatta per i testi? I testi, dilettanti che non siete altro, son fatti per la filologia! I testi offrono il materiale bruto, col quale e sul quale i filologi tedeschi o intedescati edificheranno poi le loro moli informi e massicce, o i loro castelli trascendentali, arieggianti, con nobile emulazione, le babeliche torri di concetti onde i sommi metafisici alemanni attinsero e svelarono l'autentico mistero dell'essere. E diffidare delle contraffazioni.

      Tale, mi creda il Buonaiuti, è la fede dei puri filologi scientifici. Quando mettete il loro credo in soldoni, strepitano che non è cosí. Ma il Buonaiuti ascolti il Vangelo, e giudichi dagli atti e non dalle parole. Contro questa maniaca ed orgogliosa concezione della filologia ho scagliato il mio delenda. Contro l'arrogante serva padrona, e non contro la seduta ancella, i cui servigi potranno tornare utili ancora per lungo ordine d'anni, e magari per sempre.

       * * *

      Anche piú mi sorprende l'altra accusa del Buonaiuti. Io «rimprovero ai critici tedeschi, quasi avessero commesso una profanazione, di avere richiamato l'attenzione sul cosí detto periodo ellenistico».

      Io? Qui mi par di sognare. E parrà anche al lettore che vorrà controllare le mie precise parole (pag. 107). Io ho rimproverata ai critici tedeschi e ai loro imitatori italiani la valutazione esagerata di quel periodo: supervalutazione che, per contraccolpo, ha prodotto la svalutazione dei veri grandi, a cominciar da Omero (vedi pag. 105). Ora, questi spropositi, pronunciati da persone credute competenti, in materia dove è difficile il controllo, per la difficoltà della lingua, sono deleterî: assai piú deleterî che non gli errori di fatto. Credere che la battaglia di Maratona sia avvenuta il 470, sarà meno dannoso che non reputare Callimaco poeta sovrano, e Omero vate da colascione, Corinna ape nutrita dalle Muse, e Pindaro sgrammaticato guastamestieri, Timoteo (non alessandrino, ma degno d'essere alessandrino) artefice sommo, ed Eschilo tragediografo da fantocci. Queste sciocchezze screditano l'arte classica agli occhi delle persone piú facili: agli occhi degli artisti screditano gli studiosi di quell'arte, e, per conseguenza, i medesimi studî classici. Chi li propala, tradisce la sua missione di dotto: anzi, non è piú dotto: bensí, o sofista o cerretano.

      E da questo mio presunto bando al periodo alessandrino il Buonaiuti trae una illazione anche piú ampia: io «mi pongo da un angolo visuale circoscritto ed unilaterale»; io «non vedo nulla al di là della produzione classica». La illazione è arbitraria: tuttavia la ricordo, perché mi offre il


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