Minerva e lo scimmione. Ettore Romagnoli

Minerva e lo scimmione - Ettore Romagnoli


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emendazione obiettiva, ma anche dalla tendenza della sua mente ad alterare le accolte testimonianze filologiche. La piú bella, anzi l'unica storia della letteratura italiana fu scritta dal De Sanctis quando si conoscevano assai meno fatti e assai meno vagliati di quelli che conosca adesso ogni mediocre studioso.

      Sicché, per concludere, e tornando al barbarico gergo efficace, la «paziente industria del metodo induttivo» applicata alle discipline morali, non le costringe al massimo rendimento. Essa non ci può dare altro se non la emendazione del materiale. E non è questa, badiamo bene, una tara che si sia cosí scoperta nel metodo induttivo. Perché questa sua applicazione è una scimmiottatura: perché il metodo che serve a scoprir leggi, applicato dove leggi da scoprire non ci sono, non conserva piú la sua vera sostanza, ma conserva solo una esterna parvenza: non è piú metodo induttivo, bensí metodo ordinativo. Ora, l'ordinamento è una bella cosa, è, ripetiamolo, il primo gradino d'ogni studio; ma nell'ordinamento non si esaurisce lo studio. E tutti sentono che ben altre sono le vette a cui debbono aspirare le discipline morali.

      E bene osserva il Buonaiuti che ciascuna disciplina e ciascun gruppo di discipline deve formarsi il suo metodo. E ciascuna, infatti, delle discipline morali, storia, letteratura, filosofia, dovrà crearsi nel proprio seno i proprî metodi e le proprie leggi: come difatti è avvenuto in passato, senza chiedere il permesso alla filologia scientifica. Ma se vogliamo poi trovare una disciplina e un metodo che accolga in sé, come sottordini, tutte quelle leggi e quei metodi, questa disciplina non sarà, no, la filologia col suo metodo ordinativo. Sarà la disciplina che ha per proprio cómpito lo studio d'ogni fenomeno del pensiero mediante i piú raffinati strumenti del pensiero: sarà la filosofia. Onde giusta è l'antica denominazione che chiamava filosofica la facoltà di lettere, che oggi si vorrebbe ribattezzare in filologica.

       * * *

      E di tutto questo ragionerò ampiamente nel mio prossimo volume, dove il Buonaiuti vedrà collocata anche materialmente, nel suo giusto luogo, e con le sue debite attribuzioni, la sana ed onesta filologia.

      Ma fin d'ora voglio rispondere ad un altro appunto suo, che, del resto, e prima e dopo di lui, mi è stato rivolto e ripetuto centinaia di volte. Ed è questo. Che, a parte qualsiasi discussione teorica, la mia ribellione contro la micrologia filologica può indurre altri a trascurare il minimo accertamento dei fatti, anche nei casi e nelle fasi di studio in cui lo proclamo anche io indispensabile ed unico. Sicché si affacci il pericolo di tornare al periodo di ignoranza e di confusione, alla fabbrica di castelli in aria, che screditavano l'Italia di fronte agli stranieri, prima che prevalesse anche fra noi questo benedetto metodo scientifico.

      Qui rispondo intanto, in via preliminare, che mi sembra mal vezzo, e d'indiretta importazione germanica, questo battezzare castelli in aria tutte le opere fiorite in Italia prima del sullodato metodo scientifico. Castelli in aria le opere di Genovesi, di Romagnosi, di Galluppi, di Verri, di Beccaria, di Micali, di Amari, di Vannucci, di Gioberti, di Rosmini, di De Sanctis, di Giuseppe Ferrari, di Cattaneo, e lasciamone tanti altri, e lasciamo i puri e grandi artisti, che rifulgono come stelle, e tutti li ammirano? Se gli stranieri d'allora traevano dalle opere di quegli uomini insigni argomento di scredito per l'Italia, peggio per loro: vuol dire che erano ignari o prosuntuosi. Se gl'Italiani d'oggi non leggono piú le loro opere, peggio per loro: vuol dire che sono incitrulliti e imbastarditi. Lasciamo andare, filologi scientifici e sofi rihegeliani: prima di spifferare certe sentenze, leggete un po', invece di tante contemporanee scipitezze alemanne, le opere dei nostri grandi.

      Ma andiamo avanti. Io domando ora questo solo al Buonaiuti. Dato e non concesso che la irriverenza mia verso la filologia scientifica, dovesse incoraggiare questo o quello studioso a buttarsi sull'imbraca, e a far d'ogni erba fascio, ne discenderebbe forse la ineliminabile conseguenza che avessero a divenire babbei tutti quelli che debbono leggere, esaminare, o giudicare a effetti pratici le loro opere? Vi risulta forse, oh puri Scienziati, che nei concorsi ove ebbi l'onore di seder giudice al Vostro fianco, io mi sia compiaciuto mai di esaltare lavori retorici, gonfi, da acchiappanuvole? Anche qui avete giuocato sull'equivoco, e non onestamente. Ripensateci su, egregi Colleghi. E vedrete che fra Voi e me la differenza consisteva in ciò solamente. Che io soffiavo tanto sui castelli di carte italiane quanto su quelli di carte tedesche. Mentre Voi, non dico tutti, ma parecchi di Voi, quando al posto d'un pacifico re di coppe vedevano un macellaro kaiser di spade, chinavano riverenti la fronte e il ciglio, e quel castello di carte lo pigliavano per una rocca ciclopica.

      Rinfoderate, cari Colleghi, rinfoderate questo patriottico timore che i miei principî possano indurre i giovani alla fannullonaggine. Anzi, la vostra «filologia scientifica» che, almeno in pratica, non va oltre alla raccolta dei fatti sgranati, alla minuta osservazione enumerativa, che Bacone dichiarava fanciullesca, questa filologia, esaltatrice, non senza proprio interesse, della inoperosa dottrina, consente, sotto le pompose apparenze, la profonda inerzia intellettuale. Ma nessuna inerzia consentono i principî miei, che in ogni ordine di disciplina morale richiedono pensiero, pensiero e pensiero.

       * * *

      Il fatto che il Buonaiuti, ad onta della indiscutibile sua buona fede ha frainteso alcuni degli appunti miei principali, mi dimostra poi chiaramente una cosa. Che cioè, piú che non dalle mie idee, egli è rimasto impressionato dalla forma impressa alle idee. Il modo l'ha offeso, piú che non la cosa. E tanto, che ha finito per vedere solo il modo, e per esempio, ha combattuto come affermato in linea perentoria ed assoluta il mio delenda philologia, che era invece temperato da parecchie modalità.

      Ma di questo fatto io non mi rammarico: anzi me ne allieto, come d'un sintomo della prevagheggiata e preveduta efficacia del mio libro. Mi spiego subito.

      Dice Pindaro che infiniti errori sono appesi alle menti degli uomini. Vorrò io forse immaginare che soltanto la mente mia vada scevra di tali ingombri? Davvero, io non esercito la professione dell'uomo modesto, che troppo sovente va a braccetto con la ipocrisia e con la interessosa volponeria; ma neppure nutro una cosí stolta presunzione. Però, prima di giudicare entro me una cosa, ne esamino i fondamenti: prima di esprimere il giudizio, ci penso su due volte: sicché non m'avviene di asserire nulla di cui non possa poi rendere le mie ragioni. Queste potranno parere buone o cattive, e sarò sempre grato a chi mi dimostrerà che erro. Ma non permetto che chicchesia venga, con arbitrario atto d'autorità, a tonarmi il quos ego.

      Ora, avendo dedicato la mia vita agli studî dell'antichità classica, e parendomi che tali studî siano avviati in Italia su una strada falsa, da parecchi anni vado esponendo le mie ragioni, e cerco di richiamare i filologi ad una ordinata discussione intorno al carattere, alla ragion d'essere, e ai metodi che si convengono a tali studî[4].

      Ma i filologi, no. I filologi, o, per meglio dire, un certo gruppo di filologi, che per lunghi e lunghi anni ha tenuto il mestolo delle cose classiche, aveva concepito il lavoro filologico come una pesante facchinata da compiere senza mai chiedere il perché. O, meglio, come una specie di corsa nel sacco. C'erano certi assiomi, e certe regolette e formulette, una specie di dottrinella filologica, che ciascun adepto doveva imparare e ripetere e giurare su quella, e poi, gambe e capo nel sacco, e via, avanti, avanti, a balzelloni, a sdruccioloni, a rotoloni. E se qualcuno tentava di fermarli, muto la metafora, si appallottolavano come tanti porcospini, e gli dardeggiavano contro velenosissimi aculei. Discutere? Rivedere i nostri assiomi? Distruggere i nostri dogmi? Béccati, iconoclasta, questa allusione! Succhièllati questa insinuazione! Giulèbbati questa calunnia!

      Alla fine, mi sono seccato. Ora, che cosa si fa, quando un organismo è divenuto torpido, e non risponde piú ai farmachi usuali? Si pon mano ai rimedi eroici, agli eccitanti. E se gli eccitanti non bastano, se l'organismo pare addirittura insensibile, ci vuole il marchio rovente. Poniamo che il Delenda philologia sia stato questo marchio rovente.

      Ho raggiunto lo scopo. I filologi, a quella bestemmia, hanno visto rosso, e, senza neppure leggere il capitoletto, si sono avventati a corna basse. E piú che io non sperassi. Gli opuscoletti, gli articoletti, le letterine ai Direttori non furono che un piccol cenno. Il giorno 8 luglio, la Società Atene e Roma s'è radunata in Assemblea solenne, e ha bandita una crociata contro lo Scimmione,


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