Minerva e lo scimmione. Ettore Romagnoli
sono di gran lunga sorpassate: non questo o quel filologo si è infine mosso a discutere; ma si è addirittura bandita una leva in massa di filologi. Benone. Avranno infine occasione di far lavorare un po' il cervello; e non può derivarne che un bene a loro e agli studî.
Ed ora, mentre la «riflessione matura», io faccio qui una profezia: che quando la minacciata Collezione d'opuscoli sarà completa, se ne potrà stralciare una preziosa antologia d'impertinenze contro il mio povero me; ma l'accordo fra me ed i miei oppositori sarà pienamente raggiunto.
Ché già fin d'ora, molti di essi, pure con l'aria e la convinzione di ferocemente combattermi, hanno aderito a parecchie delle mie idee e delle mie proposte pratiche. Alcune di queste adesioni si possono vedere in questo volume, nel capitolo sull'«Affrancamento della libreria italiana». Anche piú notevole è la conclusione d'un articolo in cui Giovanni Calò parla un po' per conto proprio, e un po', anche, dell'Atene e Roma (Marzocco, 29 aprile).
«Intanto si preparino gli studiosi, con tenacia di voleri e concordia di spiriti, a contribuire al risorgimento italiano degli studî umanistici. Nei quali, pur ispirandosi alla severità dei metodi che sono l'essenza della filologia germanica come d'ogni filologia, ma riducendo quant'è possibile il formulario algebrico di cui è cosí spesso ispida e oscura la filologia tedesca, evitando le eccessive pretese sistematiche e gli arbitrî congetturali abbastanza frequenti nella scienza tedesca, introducendo nell'indagine critica piú misura, piú buon senso, piú semplicità, utilizzando pur sempre l'esempio e l'opera dei nostri antichi umanisti, l'Italia potrà ancora una volta stampare una sua impronta non cancellabile».
Ora, lasciamo le bizze polemiche, e veniamo al sodo. Queste parole di Calò sembrano un'eco di talune pagine di «Minerva e lo Scimmione». Qui, come negli altri punti ch'io registro, l'accordo è raggiunto.
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E questo è l'essenziale, questo è quello che mi importa. Non sono né cosí semplice né cosí vanitoso da sperare o da pretendere che altri repudi e confessi di repudiare le sue convinzioni per la forza dei miei argomenti. In verità, le convinzioni aderiscono alla nostra coscienza con grovigli di radici sentimentali e pratiche troppo fitti ed intricati perché possa reciderli mai lama di dialettica, per quanto salda e affilata. Se contro esse vediamo avventarsi la impalpabile e corroditrice schiera delle armi logiche, tutto l'intimo essere nostro insorge a difesa; e quanto piú vorranno stringerci al muro, tanto piú ci schermiremo e irrigidiremo; e la sofistica, lodi le siano rese ora e sempre, fornisce a tutti armi cosí manevoli e sottili, che chi si risolve ad impugnarle, difficilmente si vedrà costretto a chieder mercede.
Ma per fortuna, in queste schermaglie dialettiche accade spesso che, parato il colpo, rintuzzato l'avversario, il nostro pensiero, eccitato dall'assalto, si ripieghi su sé stesso, e venga indotto, quasi involontariamente, a meditare su quelle convinzioni. E allora può anche avvenire che ci balenino argomenti nostri, creduti nostri, per forza dei quali, pure escludendo ogni possibile connessione fra essi e quelli dell'avversario, ci risolviamo ad accogliere qualche temperamento della primitiva nostra convinzione. E non è raro il caso che il temperamento implichi addirittura un capovolgimento. Questo caso appunto sembra essersi avverato nei riguardi degli urbani miei oppositori. Onde io sopporto in pace le loro impertinenze. Perché, come ho detto ora esplicitamente, e come già avevo implicitamente dichiarato nel proemio alla prima edizione, piú che il chimerico ufficio di suasore, intendevo assumere l'altro, piú modesto, ma piú efficace, di provocatore logico.
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E un altro scopo mi prefiggevo, oltre a quello di stimolar la riflessione dei dissidenti: quello di porgere armi a quanti concordano meco.
Le verità non si imparano solamente dai maestri né di sui libri, tomo per tomo, pagina per pagina: si possono anche afferrare di colpo, da pochi indizi e apparentemente remoti, grazie ad una rapida intuizione. Salvo che, in questo secondo caso, piú difficile riesce addurre le ragioni.
Ora, in Italia, dove l'intuizione e il buon senso fioriscono accanto al mirto, perennemente, molti e molti, pur senza essere iniziati nei misteri eleusini della filologia scientifica, intendevano e intendono che lí sotto si annida qualche grossa mistificazione. Ma, come ho detto, altro è intuire, altro è provare. E finora, quando un profano si arrischiava a sollevar qualche dubbio, saltava subito fuori un filologo babau, e gl'intimava silenzio. «Zitto lí, profano. A me la parola, ch'io sono uno scienziato». Adesso, spero, il giochetto sarà finito. Adesso il povero profano di buon senso, che non ha altro torto se non quello di non essersi tempestivamente sprofondato nei Jahrbücher, nei Beiträge, nei Sitzungsberichte, potrà sempre rispondergli: «No, sei tu un pappagallo». Vedi Minerva e lo Scimmione, capitolo tale, pagina tale.
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Longanime lettore, non ti sgomentare. Butto via un fascio di cartelle, e concludo. Concludo con un ultimo appello ai filologi. Qualcuno mostrò disdegno e terrore dei molti, dei troppi non filologi, che avevano accolto festosamente il mio libro, e ai quali porgo qui i miei ringraziamenti vivissimi. Dove si va a finire, piagnucolavano quegli altri, se tutti vorranno parlare di filologia?
Non vi spaventate, cari Colleghi, non fate le zitelle ritrose. Non temete le discussioni. Quando in qualsiasi provincia di studio impera senza contrasto una scuola, quella provincia è prossima allo sfacelo. Lo spirito vive del contrasto. L'intorpidirsi delle idee in moduli prestabiliti, gli riesce fatale, come la stagnazione dell'acqua alla salubrità dell'aria. Nelle caverne, chiuse da cinquanta anni, della filologia italiana, lasciate che entrino a gran fiotti l'aria, la luce, i raggi del sole.
Allora sembreranno evidenti e naturali tante cose che ora sembrano arcane ed inconcepibili. Questa fra l'altre: che questo mio libro tanto incriminato non è se non una pura e semplice e modesta difesa del buon senso italiano. Di quel buon senso che lo sterile e prosuntuoso «metodo scientifico» ha ucciso da un pezzo in tutte le nostre scuole. E questa volta, senza neppure la curiosità di vedere com'era fatto.
Ma il buon senso non è morto. Giace riverso, mezzo fra torpido ed ebbro. E pei giorni venturi e per i nostri figli, noi lo vogliamo ridesto, limpido e vigile. E questo mio libro non deve essere una lamentazione funebre, bensí una squilla di risveglio, una diana italiana. Amici e nemici, levate con me il calice dell'auspicio!
Settembre 1917.
PREFAZIONE
ALLA PRIMA EDIZIONE
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